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| Diciamo che un discorsetto lo avevo già fatto per l’ultimo capitolo. So che magari ho danneggiato un po’ l’epilogo e questo facendo capire che quello era per me l’ultimo però è così. Ciò non significa che questo non si meriti lo stesso trattamento dell’ultimo perché, ad esempio a me, piace (per alcuni aspetti) di più. Capirete il perché quello era l’ultimo capitolo e questo no. Lo capirete fin da subito. Certo, se quello era l’ultimo capitolo viene da chiedersi cosa è questo. E rispondo dicendo che questo è il riassunto di una storia intera. Se l’ultimo capitolo era la fine di un percorso, questo è semplicemente il corso di un’intera vita e mi piace per questo. Questo è anche l’ultimo capitolo che posterò qui, in questo forum che ha qualcosa in più rispetto agli altri. E’ l’ultima volta che leggerete di loro. Ora non potrete più dire “è finito, però vediamo cosa succede”, ora esiste solo “è finito e basta. Non leggerò più di Caio, Tizio e Pinco pallino”. Ho parlato della storia postando l’ultimo capitolo e, probabilmente, lo rifarò in un commento finale. Ora volevo semplicemente parlare di questo capitolo strano, che alla prima lettura non capirete appieno, forse solo verso la fine o metà. Vorrei tanto leggerlo insieme a voi, perché al contrario di tutte le altre volte, non so cosa penserete. Io ho cercato di fare del mio meglio e poi ho modificato molte idee iniziali ed è venuto più coerente. Prima di iniziare però volevo fare alcune precisazioni: 1) Ho immaginato questa specie di epilogo in tre modi differenti. All’inizio inizio della storia non avevo neanche pensato dovesse esserci un epilogo, forse pian piano delineando i personaggi ho iniziato a prendere in considerazione l’idea. Poi vi dirò come doveva essere tanto tempo fa questo capitolo, come è cambiato nella seconda forma per poi giungere a quella attuale. Tra la prima e questa ci sono notevoli differenze ma anche tra la seconda e questa XD Ricordatemelo però che può darsi lo scordo. 2) Il titolo del capitolo era un altro, infatti mi scuso con Rebecca perché le avevo detto che prendeva il nome di una persona. Diciamo che siccome ho modificato un po’ il corso del capitolo quel nome del personaggio non ci stava più bene e non perché diventa inutile ma perché l’ho reso in modo diverso. Per questo capitolo, come è stato scritto ora, il titolo che c’è ci sta meglio del precedente XD Capirete alla fine *.* 3) I dialoghi con l’asterisco sono in italiano ma nella seconda parte non li ho più messi, tanto si capisce chi parla italiano, inglese o altre lingue. Ci sono anche un paio di asterischi per un’altra lingua ma è sempre specificato di che lingua si tratta, se il narratore la comprende oppure no. Non ho fatto tanto casino, ho cercato di stare attenta XD 4) Alla fine li ho messi tutti e tre i ricordi, mi sono accorta che non potevo non metterli…sarebbe stato come non dire qualcosa. Il secondo che avrebbe dovuto essere il più leggero e quasi uno sfizio non lo è affatto ò.ò Scritto in questo modo è diventato tutto tranne che una carta jolly ed è bello pesantuccio, magari dopo il terzo ò.ò Per colpa dei due ricordi che ho aggiunto è diventato molto più lungo ma è l’ultimo e me lo posso permettere ù_ù 5) Vi ricordo che la storia di venvi non era ambientata nel 2010/2011 ma nel 2008/2009. Lo dico perché sono passate due edizioni di amici e potreste confondermi. Isabel e Adriano hanno 21 anni (lei li ha fatti nel capitolo finale), Jon ne ha 24 e ne avrebbe avuti 24 anche Davide. Ricordo anche che i ricordi di Isabel con Davide erano ambientati nel 2006, lei aveva 17 anni e lui e Jon 20. Comunque chissene delle date, ho cercato di esser precisa nel capitolo e, come per le lingue, non penso di aver combinato un pasticcio ò.ò 6) Ho cercato di infilare alcuni dei vostri amati, l’ho già detto in un commento. Alcuni sono un po’ forzati, uno in particolare no e mi è piaciuto il riferimento naturale (sono soddisfatta di me stessa *.*) 7) Il capitolo inizia con la parola più bella del mondo e non è un caso *________________* 8) Come già detto sicuramente vi dimenticherete subito cosa c’era scritto nelle prime righe, nelle prime pagine, ecc ecc quando arriverete alla fine. Invece secondo me all’inizio il capitolo merita tanto quanto la fine, anche se può sembrare che c’è uno squilibrio. Certamente cattura più la seconda parte ma sono convinta che senza questa parte iniziale non sarebbe stata la stessa cosa. Ad esempio alla fine vi sarete sicuramente scordate di un tizio divertente nel primo ricordo, che secondo me merita di esser preso a sberle nel commento finale XD Quindi magari appuntatevi le cose più carine (ok, lo dico solo perché c’è la visione celestiale, lo ammetto ahahaha Non farei questo discorso se la visione celestiale stesse alla fine del capitolo XD No, dai, seriamente lo dico un po’ in generale…visto che non sono a leggere lì con voi almeno vorrei sapere alcune cose che avete pensato man mano che leggevate. Tanto è l’ultimo capitolo e potreste anche decidere di leggerlo a pezzi, non viene neanche difficile da fare ù_ù) 9) Lo dovevo mettere per forza ma amo scrivere dal punto di vista di Jon *.* Isabel, Adriano, Simone e Catherine (un po’ di meno lei) sono contorti in modo assurdo. Adriano in un modo differente però contorto in alcuni pezzi lo è proprio. Jon è di una linearità pazzesca *__* Forse non lo sarebbe stato se avessi preso il suo punto di vista nei ricordi con Davide ma preso in questo contesto è perfetto, come sempre del resto 10) Arrivare al punto dieci era un obbligo. Che dire se non “Buona lettura”?
Ps: Una volta finita la storia capirete il perché di questa mia nuova firma *.* Il Principe Ma il principe non ce la fa, ha bisogno dell’aiuto della principessa per imparare ad amare
23 Dicembre 2014
Gabriel era appoggiato al muro, con una gamba piegata e le braccia incrociate al petto. Appena mi vide sorrise, staccando il piede dalla parete e sistemandosi la divisa. «Ecco Mr. Ritardatario» mi fissò divertito «ci si sveglia alle undici, Snow? I ladri hai intenzione di lasciarli tutti a noi?» «Lascia perdere» lo guardai male, entrando in questura, «non ho chiuso occhio stanotte per colpa di questo dannato tempo» lanciai una rapida occhiata fuori dalla finestra e fissai la neve che cadeva fitta. Almeno i tuoni erano passati, pensai con un pizzico di ottimismo. Odiavo il periodo natalizio proprio a causa di quel dannato freddo e per colpa della pioggia. La neve era bella solo da guardare da una cartolina ma, per le strade, era così sporca che sembrava fango. «Un “Buon Compleanno” posso fartelo senza rischiare la morte oppure è meglio che cerco immediatamente la strada per il Polo Sud?» Gabriel continuò a camminarmi affianco, salutando qualche collega. «Cerca la strada» borbottai con una smorfia. «Trent’anni non sono poi così male» lui continuò a ridere. «Gabriel la strada vuoi trovarla da solo oppure preferisci che te la indichi con un calcio?» mi voltai a guardarlo minaccioso. «Ok, ok…chiudo la bocca!» non perse il sorriso «però sta attento a non assassinare Bill e Charlie. Hanno passato una settimana intera ad organizzarti una festa a sorpresa» scrollò le spalle «io non ho detto nulla, mi raccomando!» aggiunse, alzando le braccia con espressione innocente. Alzai gli occhi al cielo e mi levai il giubbotto per infilarmi la divisa ma, a causa del freddo, me lo rimisi una volta vestito. Gabriel mi aspettò fuori e, quando uscii, lo trovai a parlare con la nuova segretaria del Primo Dirigente. Aspettai che lei smettesse di fargli gli occhi dolci ma, capendo che di compleanni ne sarebbero passati altri venti, optai per avvicinarmi immediatamente. D’altronde era un bel ragazzo, in particolare per l’aria straniera, dei paesi dell’Est. Aveva capelli biondi, occhi tra il verde e l’azzurro e uno sguardo penetrante e intelligente. Di corporatura non era molto robusto ma neanche troppo snello. Aveva un fisico ottimo per la corsa, riflessi pronti e grande agilità nel muoversi. Anche di mente era piuttosto sveglio ed era questo uno dei tanti motivi per cui aveva successo con le donne, soprattutto quando indossava la divisa. Forse era quell’aria da intellettuale e quello sguardo misterioso e interessante a colpirle, più che la bellezza in generale. Helena alzò lo sguardo scuri su di me e sorrise «buon compleanno, Jon! Ti stavamo aspettando tutti!» Sbuffai e Gabriel le sussurrò all’orecchio divertito «non dirglielo, è molto suscettibile il vecchietto». Lei rise forte e gli diede un pugno sul petto «sarà anche sei anni più grande di te ma di bellezza rimanete distanti anni luce». «Eh, lo so» lui sospirò guardandomi con finto rammarico «ancora mi deve insegnare i trucchi del mestiere». «Tu invece mi dovresti dire dove sono tutti gli altri» lanciai un rapido sguardo al corridoio semi deserto. «Ti staranno preparando la sorpresa, no?» Gabriel alzò le spalle noncurante e salutò con un bacio sulla guancia la segretaria. «La smetti di provarci con tutte le nuove?» gli chiesi una volta che lei ebbe girato l’angolo, seguita dal suo sguardo a raggi x. «Hai ragione, mi sa che mi tocca cambiare prede» si guardò in giro pensieroso «anche perché tutte quelle con cui sono uscito mi parlavano di te, quindi non caccerò più a lavoro» mi sorrise e voltammo l’angolo «comunque non ti ho raccontato l’ultima uscita di Richard Lee!» esclamò con una smorfia tra le labbra. Già il nome Richard Lee era un cattivo presagio. Anche se era entrato nella polizia da poche settimane si era già fatto la fama di stronzo dell’anno. Un bamboccio di vent’anni, raccomandato e senza un briciolo di sale dentro la zucca. Nessuno lo sopportava ma, allo stesso modo, nessuno aveva il coraggio di mettersi contro di lui per evitare il licenziamento diretto. «Cosa ha fatto?» domandai al biondo, leggermente incuriosito. «Lo stronzo ha portato un bambino qui in questura. Avrà minimo sei anni e l’ha trovato senza genitori. Ma non è per quello che l’ha portato, è perché ha rubato qualcosa da mangiare al bar» Gabriel fece una smorfia schifata «e ora lo sta interrogando. Ti rendi conto?» «Lo sta interrogando?» mi fermai a guardarlo scandalizzato «stai scherzando spero!» Lui scosse la testa con espressione grave «no, affatto. Appena ho cercato di fermarlo mi ha dato del “rumeno di merda”» le sue labbra si distorsero in un'altra smorfia, forse la ventesima della giornata. Non gli diedi più ascolto e camminai velocemente fino al primo piano. Gabriel mi seguì da dietro, silenzioso come un’ombra, e non disse nulla quando presi la direzione del posto in cui, solitamente, si svolgevano gli interrogatorii. Trovai alcuni poliziotti con lo sguardo fisso sul vetro che dava alla stanza dove Richard Lee era in piedi, con le mani sopra il tavolo. Gabriel sussurrò un “bastardo” sommesso, rivolgendo lo sguardo nella mia stessa direzione. «Aspetta qui» non lo degnai di un’occhiata ed aprii la porta della stanza. Non ero mai stato lì dentro poiché di solito osservavo gli interrogati da oltre il vetro. Loro non potevano vedere il corridoio esterno, al contrario di quelli che si trovavano fuori. Al rumore della porta Richard alzò gli occhi azzurri dalla sedia di fronte a lui e li fissò su di me. Tutto in lui, a partire dagli occhi, suggeriva strafottenza e ripugnanza. Mi fissò a lungo, inclinando la testa leggermente più a destra, con un sorriso divertito sulle labbra sottili. «Snow ti hanno mai detto che si bussa?» la sua voce uscì in un sussurro viscido «e che un semplice impiegato non ha nessun accesso qui?» Mi avvicinai al tavolo, non perdendo il contatto con i suoi occhi azzurri «e a te hanno mai spiegato che questa stanza va usata solo in casi gravi e sotto direzione di qualcuno di grado più alto?» cercai di parlare con tono calmo, nonostante dentro stessi ribollendo dalla rabbia. «I criminali vanno stroncati sul nascere, fin dalla tenera età ma nessuno oltre a me pare averlo capito qui dentro» il suo sguardo questa volta abbandonò il mio per posarsi sulla sedia davanti a lui. Seguii la sua stessa direzione e vidi un bambino seduto, con lo sguardo abbassato e i piedi incrociati. Riportai in fretta gli occhi su Richard «ho sentito che il Commissario ti stava cercando poco fa. Scommetto che ha per te ordini decisamente più interessanti rispetto a quest’affare di poco conto. Lascia che ci pensi io» forzai un sorriso ma lui non la bevve, come del resto avevo immaginato. «Non mi freghi Snow» rise «ma sono curioso di vedere se riesci a cavartela, questo delinquente ha la bocca cucita» guardò schifato il bambino che alzò non alzò neanche gli occhi da terra. «Vedremo» i miei occhi tornarono su quelli acquosi di lui e lo seguirono per tutto il tragitto fino alla porta. Prima di aprirla si voltò a guardarmi e rise, scomparendo dietro di essa l’istante successivo. Rimanemmo solo in due in quella stanza. Lentamente mi avvicinai alla sedia ma, a metà strada ci ripensai. Fissai il ragazzino che non guardava me ma alcuni oggetti posti sopra il tavolo. Mi chiesi se sarebbe stato più a suo agio vedendomi in piedi o seduto. L’immagine di Richard in piedi, con i pugni serrati sopra il banco e il busto proteso verso di lui come nell’atto di sbranarlo, però mi fece scegliere la seconda opzione. Raggiunsi la sedia e mi tolsi il giubbotto, posandolo sul tavolo. Lo guardai a disagio, non sapendo come comportarmi. Non potevo andarmene e lasciarlo lì perché, quasi sicuramente, Richard sarebbe tornato a tartassarlo. Non potevo neanche chiamare altri di grado superiore perché ciò avrebbe implicato parlare con dei muri visto che i raccomandati erano intoccabili. L’unica soluzione possibile era farsi dire da lui dove si trovassero i genitori e riportarlo all’istante tra le loro braccia, facendo finta che non fosse mai successo nulla. Il mio sguardo cadde nuovamente su quel bambino che questa volta aveva alzato gli occhi. Aveva dei bellissimi occhi ma, allo stesso tempo, tristi. Erano di un verde cupo con qualche riflesso dorato ma apparivano distanti, tristi, profondi. Doveva avere più o meno sui cinque anni ma aveva un espressione più matura della sua reale età. La carnagione era olivastra e i tratti del viso mi fecero pensare che doveva essere straniero, probabilmente indiano. Non aveva lineamenti forti ma dolci che gli conferivano una bellezza innocente ma interessante allo stesso tempo. «Come ti chiami?» domandai, trovandomi ad annegare in quegli occhi così belli. Non rispose. «Quanti anni hai?» chiesi di nuovo, non scoraggiandomi. Non rispose. «Parli inglese?» questa volta assunsi un tono di voce più preoccupato. Non rispose. Mi accasciai sulla sedia e lo fissai, non sapendo come comportarmi. Lui continuò a guardarmi con espressione impassibile, il viso simile a quello di una statua greca. Era immobile, non mosse neanche ciglio o batté un colpo. La mia mano incontrò ciò che si trovava sopra il tavolo e fissai il tutto curioso. Presi tra il pollice e l’indice un panino, una confezione di biscotti e cinque dollari. Un sorriso si fece spazio tra le mie labbra e giocai con i soldi «a pensare che ci sono tanti di quei delinquenti in giro…ci mancava solo uno stronzo egocentrico che metterebbe in carcere ladri di mutande al posto di terroristi» tornai a fissarlo, inclinando la testa, «hai rubato solo questo?» indicai il tutto come se fosse sabbia. Lui non rispose neanche questa volta, non cogliendomi di sorpresa. Mi sporsi di poco verso di lui, appoggiando entrambi i gomiti sulla superficie del tavolo. «Non so cosa ti abbia detto il mio collega poco fa ma io non sono lui» scossi la testa, sperando che parlasse la mia stessa lingua e non stessi solo sprecando fiato, «non sono qui per interrogarti, costringerti a chiedere scusa al proprietario di queste cose o, peggio ancora, per picchiarti. Voglio solo sapere dove si trovano i tuoi genitori e riconsegnarti a loro come se non fosse mai successo nulla. Però, per farlo, mi serve la tua collaborazione». L’espressione sul suo viso non mutò e mi riaccasciai sulla sedia, imprecando silenziosamente. Rimasi in attesa per qualche minuto, in cui il silenzio fu così opprimente che sentii il bisogno di spogliarmi per il caldo. Posai la giacca della polizia sopra il tavolo e rimasi in canottiera, chiedendomi se avessero aumentato il riscaldamento oppure fosse il mio corpo a bruciare anche se era inverno inoltrato. Mi alzai in piedi e feci un giro per la stanza spoglia, trovandola simile ad una cella. Afferrai con curiosità una bottiglia d’acqua e un bicchiere che Richard doveva aver lasciato sul tavolo per fare più colpo. Bevvi un lungo sorso e mi voltai verso il bambino che, stranamente, mi aveva seguito con lo sguardo per tutto il tragitto. «Vuoi?» domandai, alzando il bicchiere d’acqua per indicarglielo. Non rispose e lo riposai sul tavolo, ritornando a sedermi. Eppure mi accorsi che nei suoi occhi c’era qualcosa di diverso. Non mi fissavano più gelidi e inespressivi come blocchi di ghiaccio ma c’era una scintilla di curiosità nel suo sguardo. Non mi guardava direttamente in faccia ma aveva lo sguardo fisso sul collo. «Te l’hanno mai detto che è maleducazione fissare le persone?» Lo vidi arrossire per un breve attimo e riposare lo sguardo a terra, in imbarazzo. Mi pentii immediatamente di quella frase e mi maledissi, sentendomi tremendamente in colpa. Eppure avevo avuto l’effetto desiderato. Il suo sguardo sulle mie cicatrici non mi aveva dato fastidio, ma mi aveva incuriosito maggiormente. Lo guardai di nuovo ma questa volta più a fondo, convinto di aver trovato una chiave. Poi notai il suo gesto di toccarsi il polso quasi distrattamente, prima di riposarlo inerme suoi fianchi. Quel movimento non mi sfuggì e mi alzai di nuovo in piedi, cercando di vedere oltre la superficie del tavolo con noncuranza. Con una mano si toccò di nuovo il polso, entrambi gli occhi abbassati. Le sue dita si infilarono dentro la manica della felpa e, per un breve attimo, riuscii a scorgere il tratto di pelle al di sotto. Ricaddi sulla sedia e lo fissai nel volto, sperando che ciò che avevo visto fosse stata un allucinazione. «Lo vuoi sapere come me le sono fatte?» domandai, provando ancora più curiosità quando lui alzò il viso per incontrare il mio volto. Non rispose e ripresi a parlare, avvicinandomi con il busto più a lui, in modo che potesse guardarmi meglio. E lo fece, gli occhi fissi sulla mia pelle bruciata. La collana a mezzo cuore sbatté contro il mio petto a causa del movimento brusco e dondolò per qualche secondo di troppo, a destra e sinistra. «E’ stato mio padre tanti anni fa» inclinai la testa con un sorriso «non fanno male, mi fa solo male il ricordo, ma ciò che mi fa più male è sapere di aver sprecato metà della mia vita a vederla scivolare tra le dita. Avrei potuto fermare mio padre, forse avrei potuto salvarlo ma non l’ho fatto. E quando poi il tempo si allunga arriva il momento in cui finisce. La notte in cui mi ha procurato queste ferite era la notte in cui il tempo era ormai scaduto. Io l’ho allungato per oltre quindici anni e avrei continuato a farlo se non fosse finito prima». Lui continuò a fissarmi immobile e silenzioso eppure mi sembrò che stesse capendo. Fu proprio quel pensiero che mi portò a continuare. «La cosa più brutta è sapere che quel dolore che ho provato tra le fiamme lo avrei potuto evitare, se solo avessi avuto il coraggio di chiedere aiuto a qualcuno. Invece no, per tutto il tempo ho pensato che potevo farcela da solo. Non ho fermato mio padre e ho lasciato che mi facesse del male insieme ad altre persone. Ho lasciato che facesse del male persino a sé stesso. Se io avessi detto la verità a delle persone queste mi avrebbero aiutato. Esistono persone al mondo che sono speciali, sono poche ma ci sono. Io tanti anni fa credevo che non ne esistessero proprio, che potessi fidarmi solo di me stesso». Ci fu un momento di silenzio poi sorrisi «ora ti starai chiedendo perché ti sto raccontando tutto questo e posso solo risponderti che con quel tuo silenzio, quel tuo sguardo, mi ricordi me un tempo. Rubavo anche io alla tua età» afferrai i soldi, guardandoli di sfuggita, «e credimi se ti dico che rubavo ben di più di cinque dollari. A volte più di dieci portafogli a giornata e se mi andava bene ci trovavo anche cento dollari. Non ti sto qui a dire che rubare è un reato perché tu lo sai. Lo sapevo anche io alla tua età eppure lo facevo lo stesso. Non ti sto neanche a dire di smettere di rubare perché non mi ascolterai ed io so che non ci riusciresti. Ciò che ti voglio dire è troncare da subito l’origine del motivo per cui rubi. Io rubavo per progettare una vita in Italia, per vendicarmi su mio padre. Non mi pento di aver rubato, mi pento solo di aver deciso di fare tutto per conto mio. Se tu rubi c’è una ragione e devi solo fare in modo che questa ragione non esista più». Il bambino non smise di guardarmi ma la sua espressione continuò a rimanere distante, impassibile. Non mi sfuggì il rapido movimento della sua mano destra, arrivata a sfiorare nuovamente il polso. Mi ritrovai a seguire il suo indice e vidi i suoi occhi fissi su di me, più incisivi di prima. Era intelligente, mi ritrovai a pensarlo stupito. Mi stava portando lui a guardare, non era una mia iniziativa. Erano i suoi gesti che catturavano il mio sguardo, non il mio sguardo a catturare i suoi gesti. E lui voleva che vedessi la pelle rovinata all’altezza del polso. Voleva che i miei occhi seguissero le sue cicatrici per poi risposarsi sui suoi, così profondi e intelligenti. Non disse una parola eppure capii più con quel gesto. Il mio sguardo cadde sulla roba sopra il tavolo e quasi non risi. Mi sembrava troppo scaltro per farsi beccare a rubare, soprattutto durante il periodo natalizio che c’era un caos per tutta New York. L’aveva fatto apposta. Ci aveva attirati come api al miele e Richard, sotto questo punto di vista, gli aveva fatto solo un gran favore. Ma Richard non avrebbe mai capito i messaggi che stava lanciando a me. Richard non avrebbe visto nei suoi occhi ciò che stavo osservando io e non avrebbe mai colto il messaggio silenzioso che stavano lanciando. La porta si aprì di scatto e sia Gabriel che Richard superarono la soglia. Il moro calmo e rilassato, quasi soddisfatto, l’altro furente. Ma non erano soli, alla destra di Richard si trovavano un uomo e una donna che corsero immediatamente verso il bambino. Mi alzai e fissai Gabriel confuso ma non capii il messaggio che la sua espressione ansiosa mi stava lanciando poiché l’uomo appena entrato mi si avvicinò furente di rabbia. «Cosa stava facendo a mio figlio?» i suoi occhi neri si piantarono suoi miei e riuscii a scorgere solo una smorfia sulle sue labbra, una carnagione scura e caratteri forti prima che Richard scoppiasse in una risata divertita. «Oh, il nostro Snow ha spesso atti di eroismo» canticchiò con voce divertita «ha portato qui vostro figlio come se fosse un delinquente e avrà rubato solo due sciocchezze!» Aprii la bocca sconcertato ma non riuscii ad odiarlo appieno per colpa del padre del bambino che si era avvicinato di nuovo con sguardo minaccioso. Digrignò i denti e sollevò un indice contro il mio viso, furente. «Azzardati di nuovo a portare via mio figlio senza il mio permesso…» si toccò il petto, marcando l’accento straniero «e te la vedrai con me». «No, signore» Gabriel si intromise, lanciando uno sguardo velenoso a Richard «non è stato lui a…» «Non mi interessa chi è stato!» urlò e scorsi Richard annuire compiaciuto come un cagnolino addomesticato «io e mia moglie ci siamo presi uno spavento» indicò la donna china sul bambino. Sollevò lo sguardo sul marito ma lo riposò a terra, fissando rapidamente Gabriel e Richard ancora vicino alla porta. Poi portò una mano sulla testa del figlio e lo accarezzò, sussurrando qualcosa al suo orecchio. «Ha rubato questi signor Ajar» Richard percorse a rapidi passi la stanza e recuperò gli oggetti, porgendoli ai genitori. Il padre borbottò qualcosa e mi parve di notare un’occhiataccia rivolta al bambino che però teneva lo sguardo basso. Non mi sfuggì il fatto che non aveva mai alzato lo sguardo da terra da quando tutti e due erano tornati. Eppure la madre continuava ad accarezzarlo con dolcezza. «Paghiamo naturalmente» fu lei ad avvicinarsi e, per la prima volta, la vidi in volto. Aveva gli stessi lineamenti del bambino, delicati al contrario di quelli del marito. Occhi di un verde dorato e labbra carnose. I capelli neri le cadevano lucenti lungo le spalle e doveva avere poco più di vent’anni, la pelle olivastra totalmente priva di rughe al contrario di quella del marito, di molti anni più vecchio di lei. Era bella da mozzare il fiato, nettamente in contrasto con l’uomo che aveva al fianco. «Tenga» sollevò lo sguardo su di me e mi porse una banconota da cinque dollari ma non riuscii a staccare lo sguardo da un particolare all’altezza della sua guancia, visibile alla luce della lampada. C’era un livido violaceo che non era sfuggito neanche allo sguardo attento di Gabriel. Presi i soldi senza smettere di guardarla e il marito si avvicinò, cingendole la vita con un braccio come a lanciarmi un silenzioso messaggio. Allo stesso modo del figlio lei abbassò lo sguardo a terra e si staccò di poco da quella stretta, come se le facesse schifo, ma non mi degnò neanche di uno sguardo come se mi avesse a malapena visto. «Grazie mille e scusateci ancora» Richard sorrise ad entrambi e strinse la mano dell’uomo che lo fissò con calore, dopo avermi lanciato la millesima occhiataccia. «Non si preoccupi» lo congedò ed uscì dalla porta con ancora un braccio stretto attorno alla vita della moglie che teneva la mano del figlio. «Butto bastardo» Gabriel non riuscì a trattenersi e si avvicinò a Richard, sputandogli quasi addosso quando i tre sparirono dietro la porta. «Titire un’altra parola al tuo collega e giuro che ti sbatto fuori a calci» la porta si aprì di nuovo ma questa volta a varcarla fu il commissario che guardò tutti e tre con una smorfia sulle labbra «sono stato informato dell’accaduto dal signor Lee. Snow cosa diavolo ti è saltato in testa?» mi rivolse un’occhiata carica di disprezzo «un bambino qui in questura per cinque dollari e un panino, ti rendi conto? Ci potevano denunciare!» Non riuscii neanche a parlare, forse perché la mia mente viaggiava altrove. Vidi solo Richard sorridere soddisfatto e Gabriel aprire bocca per ribattere ma lo fermai, facendo segno di no con il capo. «Mi scusi» fissai i grandi occhi marroni del commissario «ma ha notato il livido sulla guancia di lei?» «Si, l’ho notato eppure non mi sembra una buona ragione per prendere un bambino e trattarlo pari ad un delinquente» la sua espressione rimase dura e impassibile. «Quel bambino voleva che lo portassi qui» feci una smorfia nell’usare la prima persona ma continuai imperterrito «voleva attirarci, ci stava inviando un messaggio». Richard scoppiò a ridere e si rivolse al commissario sempre più divertito «oh non si preoccupi, Snow ha molte affinità con i criminali» poi si avvicinò a me per sussurrare con tono viscido «com’è che era? “Ho rubato ben di peggio che cinque dollari”…tra stronzi ci si capisce. E toglimi questa curiosità: piangi ancora per il paparino?» Mi voltai all’improvviso verso di lui e mi indicò con un alzata di spalle il minuscolo microfono istallato vicino al tavolo. Sorrise di nuovo e desiderai con tutto me stesso prenderlo per il collo e riempirgli la testa di pugni, sporcarmi le mani del suo sangue con il suono rimbombante dei suoi urli nelle orecchie… «Snow non mi interessa nulla di ciò che hai pensato, la prossima volta non pensare» il commissario mi guardò malissimo, riportandomi alla cruda realtà. «Quindi è meglio chiudere gli occhi?» lo guardai con aria di sfida, dimenticandomi di Richard. Non rispose e rimase a guardarmi mentre riprendevo la giacca insieme al giubbotto e li indossavo con una smorfia sulle labbra. Passai accanto a Gabriel senza voltarmi e mi rivolsi solo al commissario, rimasto immobile di fronte alla porta. «Per oggi penso di aver fatto abbastanza danni» sbattei la porta e camminai spedito per i corridoi semideserti. Trovai Bill e Charlie davanti alla macchinetta del caffè. Charlie fu il primo a notarmi e diede una botta in testa a Bill per attirare la sua attenzione. Urlarono in coro uno stonato “Buon compleanno” ma non li degnai di uno sguardo ed uscii fuori. Fissai la neve che cadeva e sentii le lacrime bagnarmi il viso. Non sapevo neanche il perché stessi piangendo. Non era per Richard, non era neanche per ciò che mi aveva sussurrato con quel sorriso deridente qualche minuto prima. Non erano lacrime destinate ad un commissario che mi aveva rivolto solo un duro sguardo di rimprovero. Mi asciugai con rabbia una lacrima e, nell’alzare la testa, la mia attenzione fu catturata da un suono proveniente dal marciapiede di fronte. Li vidi camminare distanti, lui che continuava a borbottare a voce troppo alta e lei che stringeva forte la mano del figlio. Si chinò a baciarlo sulla fronte in un gesto quasi di protezione. Un gesto che io avevo ricevuto solo per cinque anni. Sapeva di amore e dolore, come quelli che mi dava lei. “E non mi interessa nulla di ciò che hai pensato, la prossima volta non pensare” quelle parole continuarono a risuonarmi in testa, prendendo il posto del ricordo delle sue morbide labbra sulla mia pelle. Ricacciai le mani dentro le tasche del giubbotto e diedi le spalle a loro, con una lacrima congelata all’altezza della guancia. Le mie dita incontrarono la superficie di un pezzo di carta e lo portai fuori confuso. Non ce l’avevo poco prima, ne ero sicuro. Mi fermai e lo aprii, con le mani rosse a causa del gelo. La scrittura era infantile e il tutto era stato scritto in modo frettoloso, probabilmente in un momento in cui nessuno stava guardando. C’era un indirizzo sopra ma anche qualcos’altro. Mi voltai e sollevai lo sguardo ma, questa volta, trovai degli occhi che mi osservavano prima di scomparire dietro l’angolo lasciando dentro di me una strana sensazione di vuoto e incertezza. Rilessi quelle poche parole, con il cuore che aveva ripreso a battere più forte di prima, riscaldandomi quasi come fa un fuoco in pieno inverno. E sorrisi, lasciando che anche l’ultima lacrima cadesse a causa della sua fragilità.
Salvaci. Jaime
19 Agosto 2018
Amavo l’Italia per tre motivi: il caffè, il calcio e l’arte. Ero convinto che al mondo non esistesse caffè migliore di quello italiano. Certamente non era paragonabile a quella specie di bevanda che ti proponevano in America, piena di sostanze dall’origine dubbia, ed era una delle poche cose su cui gli italiani avevano poco da ridere. Ma fu il secondo motivo quello che mi fece sorridere maggiormente mentre aspettavo con pazienza che il barista si decidesse a servire due vecchiette alla mia destra. Mi guardai in giro, ticchettando con l’indice sulla superficie vetrosa del bancone e scorsi due ragazzi chini su un giornale che discutevano tra loro. Più avanti una famiglia si sedette a tavola e notai che il bambino indossava una sciarpa tricolore, esattamente come la signora che si era appena posizionata alla mia sinistra in attesa di ordinare. “Italia campione del mondo: continuano i festeggiamenti dopo una settimana!” recitava così il titolo del giornale che avevo in mano. «*Cosa vuole?» il barista mi dedicò un po’ della sua attenzione ed alzai il capo, richiudendo il giornale di scatto. Ordinai in fretta e afferrai il vassoio. Nel camminare non potei fare a meno di ascoltare la discussione tra due signori spagnoli lì vicini. Non indossavano i colori della loro nazione ma la lingua era chiaramente spagnolo e avevano espressioni scure in volto mentre fissavano una famiglia italiana. Poi li vidi alzarsi in piedi e prendere le valigie, controllando l’orario sui rispettivi biglietti aerei. «Et voilà!» esclamai, sedendomi a tavola e afferrando immediatamente il mio caffè e cornetto. «Pensavo fossi morto» Jasmine alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e guardò il vassoio al centro del tavolo. «Specialità italiana» allungai una mano per prendere l’altra tazza di caffè e avvicinargliela insieme ad una ciambella. Lei guardò il tutto dubbiosa ma accettò ugualmente, posando il libro dentro la borsa prima di andare ad aiutare Jaime ad aprire il succo di frutta e la carta del tramezzino. «Questo caffè fa schifo» commentai, pentendomi all’istante di tutti i bei pensieri che avevo avuto prima, «lo faccio meglio io». Jasmine alzò gli occhi verdi al cielo e porse un fazzoletto a Jaime, prima di andare ad assaggiare il suo caffè. «Ti rendi conto che ogni cosa che fai per te è perfetta?» posò la tazza sul tavolo. «Certo, se l’artefice sono io…» sorrisi a Jaime che mi restituì lo stesso sguardo «e poi cara mia tu non lo sai ma facevo il caffè migliore di tutta Milano anni fa». «Me l’avrai ripetuto come minimo novanta volte» lei sospirò e si guardò in giro «comunque mi piace l’atmosfera italiana». «Oh, sono così gasati solo perché hanno vinto i mondiali» morsi il cornetto con un’alzata di spalle. «Prima ho cercato di capire qualcosa di una conversazione ma hanno un accento pesantissimo» mi confessò Jasmine in un sussurro, come se avesse paura che qualcuno la sentisse. «Ti insegno io qualcosa» piantai i gomiti sul tavolo e ci pensai su «prova a capire questo: *ho tifato Italia ai mondiali, facevo solo finta di tifare gli Stati Uniti per farti contenta». Jaime scoppiò a ridere e Jasmine lo guardò confusa «tu hai capito qualcosa di quello che ha detto?» chiese e, quando lo vide annuire, si voltò a guardarmi con espressione corrucciata «perché a lui fai lezioni provate di italiano e a me no?» «Perché tu non me le fai di hindi» scrollai le spalle con noncuranza. «Ma l’hindi non ti serve a nulla!» esclamò lei stupita. «Anche l’italiano se è per questo. A Jaime che è piccolo però si, è un arricchimento in più insieme all’hindi» scrollai le spalle «tu ci metteresti il triplo di lui per imparare, senza offesa» le sorrisi malizioso. Lei mi guardò male e incrociò e braccia al petto, bofonchiando qualcosa di incomprensibile. «Dai, proviamo di nuovo» continuai a stuzzicarla, facendo l’occhiolino a Jaime, «vediamo se capisci questo: *sei brutta e antipatica». «Jaime cosa ha detto?» Jasmine mi lanciò un’occhiataccia. Jaime guardò me con un sorriso e poi si voltò di nuovo verso Jasmine «ha detto che sei stupenda mamma». «Perché non gli credo?» lei incrociò di nuovo le braccia al petto. «Problemi tuoi» alzai le spalle «*lo scorso anno mi sono dimenticato che era il tuo compleanno. Me lo ha ricordato Gabriel se no non mi sarebbe mai venuto in mente». «Che?!?» questa volta sgranò gli occhi. «E’ un ottimo metodo per dirti la verità su tutto senza sentirmi più in colpa, ora che ci penso» mi grattai il mento pensieroso. «Jon se non mi dici cosa hai detto giuro che convinco qualcuno a fare da interprete!» si voltò verso Jaime che però scosse la testa. «Mamma ha detto che al tuo ultimo compleanno aveva preparato il regalo con un mese di anticipo, solo che poi se l’era dimenticato a casa di Gabriel» gli fece gli occhioni dolci. Lei lo guardò dubbiosa «l’unica cosa che ho capito era Gabriel…quindi può darsi che hai tradotto bene» fece una smorfia. «Visto?» alzai le spalle con semplicità e bevvi il mio ultimo sorso di caffè «ora proviamo con quest’altro: *ti amo». Jasmine rise e mi lanciò un fazzoletto in piena faccia, esclamando «questo l’ho capito cretino! मैं तुमसे प्यार करता हूँ» «Ma così giochi sporco!» esclamai con uno sbuffo, prima di voltarmi verso Jaime «cosa ha detto?» «I love you» lui fece vagare lo sguardo da me a lei. «Ho il migliore interprete del mondo, c’è poco da fare» sorrisi a Jasmine che scosse a testa divertita, finendo di mangiare la sua ciambella. Si alzò per aiutare Jaime a mettere a posto le valigie che avevamo lasciato a terra mentre finivo di mangiare il mio cornetto. Mi ritrovai ad alzare improvvisamente gli occhi, quando i due ragazzi di prima cominciarono a cantare una canzone riprodotta dal minuscolo televisore del bar. Quella canzone girava su youtube da una settimana, ascoltata sia da italiani che giapponesi, russi e persino gli spagnoli che avevano perso in finale. Il video era bello quanto la canzone e sorrisi nel guardarlo. «Vieni?» Jasmine mi richiamò. Annuii e camminai verso di lei, facendo in tempo a sentire uno dei quei due ragazzi esclamare «sai che non mi ricordo mai il nome del cantante? E’ assurdo!» rise «conosco la canzone a memoria ma non mi entra proprio in testa, eppure ne conosco altre sue!» Jasmine prese la mano di Jaime e buttò il contenuto del vassoio nell’immondizia. Approfittai di quel breve momento di distrazione per rialzare lo sguardo sul televisore. Un uomo stava cantando, camminando con le mani dentro le tasche dei jeans su un campo di calcio. Immagini di calciatori e partite si sovrapponevano più volte alla sua. Riuscii a vedere il pezzo finale, con i suoi occhi azzurri che puntavano alla porta e il suo piede che calciava sulla palla. “Io lo conosco il suo nome. E’ il mio migliore amico” con un sorriso diedi le spalle al televisore e seguii Jasmine e Jaime all’uscita dell’aeroporto.
Forse avrei dovuto aggiungere un quarto motivo per amare l’Italia: Roma. Era bellissima persino in pieno Agosto con turisti che si affollavano nelle metropolitane, sugli scalini dei monumenti, per le piazze. Fu una vera e propria impresa raggiungere il centro della città dall’hotel che avevamo scelto ma fu ancora più complicato non morire di caldo e trovare una fontana senza una fila eccessiva per riempire la bottiglia. «Ma è stupendo!» Jasmine si fermava di fronte a tutto, persino ad una panchina, e scattava foto a destra e a manca. Sbuffai insieme a Jaime, seguendola in cima agli scalini di Piazza di Spagna per accontentarla a fare una foto dall’alto. Faceva così caldo che desiderai scorticarmi la pelle di dosso ed osservai con una punta di invidia un ragazzo in canottiera che scendeva le scale. «Queste le porto tutte a lavoro» lei mi sorrise, scattando due o tre foto della piazza. Armata di una reflex non la fermava nessuno ed era impossibile parlarci. D’altronde era il suo lavoro scattare foto e non solo un hobby. L’Italia poi era un ottimo soggetto, in particolare la capitale. «Mamma ho fame» Jaime sbuffò, attaccandosi al mio braccio. «Prima una foto» a tradimento si voltò e scatto una foto, ancora prima che ce ne accorgessimo, «beccati in pieno» ci fece la linguaccia «siete dei pessimi modelli però!» «Io le odio le foto» bofonchiò Jaime con espressione corrucciata. «Non sei il solo» sorrisi rassegnato. «Voi non capite nulla, è diverso» Jasmine fu la prima a scendere gli scalini «come fate a dire che le foto sono inutili? Raccontano la nostra vita». «Nel medioevo senza foto si viveva da Dio lo stesso» alzai le spalle «e poi non sopporto mettermi in posa, fare il solito sorrisino finto e tutta la procedura…» sussurrai con una smorfia. «Ma infatti le foto più belle sono quelle a tradimento» si girò all’improvviso e fui colpito dal millesimo flash. «Poi esigo i soldi» la minacciai, scansandole il braccio, «per tutte le volte che ti ho fatto da modello dovrei essere più ricco di Paperon de Paperoni» «Non hai più l’età» commentò lei, baciandomi rapidamente sulla guancia. «Dici?» chiesi con malizia, lanciando un rapido sguardo ad una donna che si era voltata. «Se mi guardi così mi dimentico persino come mi chiamo» la vidi arrossire e afferrò la mia mano, incenerendo la donna di prima. Verso l’una trascinai entrambi in una pizzeria napoletana e mi ritrovai a sorridere guardando Jaime che mangiava entusiasta. «Fanno la pizza migliore al mondo» gli accarezzai i capelli, «ricordo che la prima volta che l’ho mangiata volevo continuare a farlo per tutto l’anno» risi a quel pensiero «Mario l’aveva comprata una sera e, quando gli ho detto che non avevo mai assaggiato la pizza italiana, ricordo che ha riso ed ha esclamato “allora penso che sarò costretto a colmare questa mancanza”». «Beh il cibo è buonissimo» Jasmine finì di mangiare la sua pizza ed accettò un pezzo che le offrii. «Anche gli italiani sono simpatici» mi guardai in giro con un sorriso «più al sud che al nord. E te lo dice uno che ha abitato per tutta la sua adolescenza a Milano…» «Ci andiamo a Milano?» Jaime alzò improvvisamente lo sguardo dal piatto. «Dovremmo prendere il treno» ci pensai su «però potremmo farlo tra tre o quattro giorni. Possiamo visitarci anche tutta l’Italia in due settimane! Io conosco solo parti della Lombardia e del Lazio qualche cosa di Roma. Comunque Milano non è bella come Roma, poche sono le città che la battono. D’inverno poi fa un freddo cane, invece scommetto che qui si sta bene». «Si ma d’estate si muore» Jasmine si sfilò la camicetta blu, rimanendo solo con una canottiera bianca che le evidenziava le forme. La osservai raccogliere i lunghi capelli neri in una coda e accavallare le gambe nude sotto il tavolo, coperte solo da un paio di shorts. Sorrisi e fissai Jaime che finiva la sua pizza, i grandi occhi verdi che seguivano i movimenti delle altre persone. Distratto com’era si sporcò e mi chinai a pulirgli la maglietta, aiutandolo ad alzarsi per andare via. «Io voglio vedere il Colosseo» esclamò appena uscimmo, tirandomi per il braccio. «Mi sa che dobbiamo prendere la linea B» fissai confuso l’entrata della metropolitana mentre Jasmine andava a chiedere ad un poliziotto che non si tirò indietro e le spiegò nei minimi dettagli, anche troppi, come raggiungere il Colosseo. «Non ci vuole poi un genio» commentai con una smorfia, entrando in metro, «appena si ferma al Colosseo lo trovi davanti, non c’era bisogno di parlare per mezzora». «Sei geloso?» lei rise, sporgendosi. «No, so solo come ragionano i poliziotti» non la guardai pur di non darle soddisfazione. «Come ragionate, vorrai dire…» lasciò la frase in sospeso «l’altro ieri Gabriel mi stava spiegando i metodi per attaccar bottone. E’ diabolico quel ragazzo!» «Noi amiamo definirlo “geniale”» la corressi, facendole spazio nell’angolo per permettere ad alcuni passeggeri di salire. Posò una mano sul mio petto mentre con l’altra continuava a stringere quella di Jaime. Appoggiai un braccio attorno alla sua vita e le sorrisi, soffiando con le labbra per allontanarle una ciocca di capelli dal viso. «Sono felice di essere qui con te» sussurrò con un sorriso, accarezzandomi sul collo. «Anche io» la strinsi più forte, facendo aderire i nostri corpi mentre Jaime ci osservava in silenzio, «magari non proprio qui, però si è capito il senso» esclamai, quando le porte della metro si aprirono ed entrò una folla di cinesi. Ci vollero altre due fermate per raggiungere il Colosseo. Non entrammo all’interno ma Jasmine si soffermò a scattare foto dall’esterno. Io accompagnai Jaime a fare un giro per i mercatini lì vicino e comprammo dello zucchero filato prima di salire di nuovo in metro e visitare altri posti come i fori romani e Villa Borghese. Particolarmente bello fu girare alle cinque del pomeriggio per Piazza San Pietro o vedere Jaime fissare con espressione timorosa la Bocca della Verità Evitammo i musei, proponendo di visitarne almeno uno un altro giorno mentre ci soffermammo a girare per il Vittoriano. Mi fece uno strano effetto fissare la tomba del Milite Ignoto e lo confessai a Jasmine ad alta voce. «Sai, mi fa rabbia pensare che nelle scuole americane il periodo precedente alla scoperta di Colombo viene trattato in modo superficiale. Alla fine in Italia non si studia solo il periodo romano ma anche il greco e lo si fa bene quanto quello della nazione. Eppure Roma viene dopo Atene, ma non iniziano la storia da Enea in poi…» lanciai una rapida occhiata a Jaime che osservava ipnotizzato l’interno del Vittoriano «alla fine Jaime non saprà quasi nulla dell’importanza della cultura greca e romana, del periodo medievale ma anche di altre cose, persino la seconda guerra mondiale la fanno a modo loro!» «Si, fa pensare» Jasmine annuì e continuammo a camminare all’esterno «sai un’altra cosa a cui stavo pensando guardando Roma? E’ bella sopratutto per quel senso di antico. Non te lo so spiegare ma vedere ancora questi monumenti, girare per strada non piene di grattacieli o stradine anche un po’ rovinate…è una bella sensazione, è come se Roma fosse ancora attaccata al passato e non volesse cambiare». «Si, è un bene però è anche eccessivo» scrollai le spalle «quando sono venuto qui in Italia anche se ero piccolo ho subito notato le differenze con l’America. Non è cambiata negli anni come nazione. E’ come se non volesse modificarsi. Non ha i soldi per farlo o, per meglio dire, vengono spesi non per migliorare il paese ma gli interessi personali di un gruppo di persone» mi ritrovai a guardarmi in giro, grattandomi il mento, «è come se non avesse una prospettiva di futuro davanti, continua a tenersi attaccata al passato perché alla fine è nelle epoche precedenti che ha ottenuto il massimo splendore». «A me piace però» continuò lei imperterrita. «Per chi ci vive però è abbastanza deludente come prospettiva per il futuro» le sorrisi e presi per mano Jaime prima di attraversare la strada. Tornammo in hotel per cambiarci ma mangiammo fuori e passeggiammo per le strade di Roma, decidendo di andare a fare una visita a Castel Sant’Angelo. Jaime ne rimase affascinato e rimanemmo lì fino alle undici e mezza di sera, prima che si addormentasse in braccio a Jasmine. «Ho i piedi distrutti» commentò lei quando aprii la porta della camera «è da stamattina alle nove che camminiamo senza sosta. E poi vedo solo bianco, verde e rosso». «Hanno vinto i mondiali, lasciali colorare» risi e l’aiutai nel togliere le scarpe a Jaime. A mettergli il pigiama fu lei mentre io andai a lavarmi i denti. Mi feci una rapida doccia e, quando uscii, trovai Jasmine appoggiata con i gomiti al balcone dell’hotel, che fissava il panorama con la sola vestaglia addosso. Inclinai la testa mentre mi asciugavo i capelli, trovandomi a fissare le sue gambe snelle e abbronzate. Mi infilai i pantaloni del pigiama e uscii fuori, raggiungendola da dietro. «A che pensi?» sussurrai al suo orecchio con un soffio, posando entrambe le mani sui suoi fianchi snelli. Lei sobbalzò leggermente a quel tocco inaspettato ma non si voltò e continuò a guardare giù. C’era una vista magnifica da là sopra. Non avevo sbagliato prima a pensare che Roma doveva essere ancora più bella di notte. «Stavo pensando a quando ero piccola» mi annunciò, continuando a non guardarmi, «una volta all’anno mia madre mi portava in cima al Taj Mahal. Da là sopra era tutto più bello. Vedevo la ricchezza della città, la bellezza del mio paese e mi sentivo come una principessa. Ma quando ritornavamo a casa, dopo tante ore di viaggio, mi ritrovavo in un ambiente diverso e smettevo di indossare la corona d’oro. Da là sopra mi sembrava di dominare il mondo ma, una volta a casa, venivo catapultata bruscamente nella realtà. Ecco perché ho smesso di andarci. Non volevo illudermi che tutto fosse perfetto come l’osservavo da là sopra. Non volevo illudermi di essere libera come gli uccelli che volevano vicino a me» sentii la sua voce incrinarsi e la strinsi più forte «quando il giorno dopo il matrimonio Ajar mi ha proposto di salire le scale di quel monumento ho rifiutato. Avevo paura di sentirmi di nuovo come quando ero bambina, anche se il simbolo della mia prigione sarebbe venuto con me. Come potevo guardare la bellezza della mia nazione, provando una sensazione di libertà da là sopra, se le sue stesse regole mi avevano privato di qualsiasi forma di libertà? Lui però mi ha costretto ad andare lo stesso e ho chiuso gli occhi pur di non osservare lo stesso panorama che amavo da bambina. Annuivo quando mi parlava, lo accontentavo quando mi ordinava di baciarlo ma non è mai riuscito a farmi aprire gli occhi lì sopra, non mi ha fatto mai sentire una principessa». Accarezzai il suo ventre e posai il viso sopra la sua spalla, baciandola lentamente lungo il collo. «Vieni con me domani» sussurrai infine, al suo orecchio. Jasmine si voltò con tutto il resto del corpo e la strinsi tra le mie braccia, come a proteggerla da qualcosa, forse da me stesso. I suoi occhi verdi mi osservarono e non riuscii a fare a meno di provare un brivido lungo la schiena, sotto quello sguardo così magnetico. Sollevai una mano per accarezzarle la guancia e la baciai lentamente sulle labbra. Quando mi staccai mi ritrovai di nuovo a sfiorarle, inconsciamente, e soffiai ad un passo da esse «ti amo, Jasmine». Lei sorrise «non c’è bisogno che me lo dici, lo so già» posò la mano sul mio petto e salì fino al collo. Le sue dita si intrecciarono alla mia collanina e ne seguì il percorso con lo sguardo, prima che alzasse gli occhi su di me con un sorriso sulle labbra «un giorno ti porterò in cima al Taj Mahal insieme a Jaime. Ma questa volta non chiuderò gli occhi. Li terrò aperti insieme a te per osservare il sole che tramonta sapendo che quel che vedo da là sopra non è più una semplice illusione ma è diventata realtà. Tu sei tutto ciò che desideravo quando ero piccola, sei semplicemente quel qualcosa di cui conoscevo l’esistenza ma era troppo lontana dalla mia realtà, quel qualcosa che osservavo in cima ad un palazzo ma, al contrario di ciò che succedeva anni fa, tu ci sei sempre» mi accarezzò il viso con una lacrima che le scendeva lungo la guancia «sei, insieme a Jaime, la cosa più bella che mi sia mai capitata ed io non ho bisogno di altro». La baciai spingendola verso il muro. Le sue labbra risposero e mi ritrovai a giocare con alcune ciocche dei suoi capelli mentre lei mi accarezzava lungo il petto. Le sue mani si posarono sulla mia schiena nuda e presero a percorrere la pelle rovinata dalle cicatrici. «Facciamo l’amore qui» sussurrai al suo orecchio, alzandole la vestaglia. «Jon, no!» rise, scansandomi con uno schiaffetto sul petto «c’è Jaime dentro!» «Hai detto bene: dentro…» mi avvicinai di nuovo a lei e continuai a baciarla, nonostante i suoi tentativi di ritirarsi. Infine riuscii ad avere la meglio e le tolsi la vestaglia. Sotto indossava solo gli slip. Feci cadere la vestaglia ai nostri piedi e la strinsi tra le braccia, scendendo a baciarla sul collo. Il pensiero che qualcuno si sarebbe potuto affacciare dal balcone vicino mi sfiorò solo inizialmente, prima che le sue mani si impadronissero dei miei pantaloni. La osservai con un sorriso mentre li toglieva e mi ritrovai ad accarezzarle i lunghi capelli mossi. Erano bellissimi, ogni cosa di lei era bellissima a partire dalle sue labbra carnose per finire con le caviglie sottili. «Aspetta» sussurrai al suo orecchio una volta che fummo completamente nudi. Portai le mani dietro al collo e trafficai con la collana. Quando finalmente riuscii a toglierla la posai accanto ad un vaso di fiori e tornai a baciarla più appassionatamente di prima. Mi chinai e misi un ginocchio sul pavimento del terrazzo. Dapprima lei mi guardò confusa ma sorrise quando avvicinai le mie labbra alle sue cosce. L’accarezzai nel mezzo e salii più sopra, baciandola dolcemente. Quando arrivai al ventre le sue dita si intrecciarono alle mie e con la mano destra mi arruffò i capelli. La baciai piano, con le mani che vagavano sulla sua schiena, ed accostai l’orecchio all’altezza della pancia piatta, facendola ridere. «Hai pensato a come dirlo a Jaime?» sollevai lo sguardo su di lei, continuando a tenere le mani fisse sui suoi fianchi e le labbra che sfioravano il suo ventre ancora piatto. Scosse la testa e mi alzai di nuovo in piedi, baciandola sulla guancia. I suoi occhi si posarono sui miei ma in un modo diverso, quasi preoccupato. Capii il motivo e rimasi ad abbracciarla, baciandola svariate volte sul collo. «So che è difficile ma dovremo farlo un giorno…» sussurrai ad un passo dal suo orecchio. «Ho paura Jon» alzò gli occhi su di me e notai che stava piangendo «e non è per colpa tua ma ha subito troppe cose in troppi pochi anni. E solo un bambino e ha sofferto troppo per la sua età, ho paura che possa soffrire ancora di più». Non seppi cosa dire e riuscii solo a stringerla più forte, lasciando che posasse il volto sulla mia spalla. «Glielo dirò io» la baciai piano, accarezzandole di nuovo la pancia «gli dirò che non cambierà nulla, che continueremo a volergli bene» la baciai di nuovo, raccogliendo una sua lacrima con le labbra. Lei mi sorrise, anche se debolmente, e le sue labbra furono di nuovo sulle mie come se vi fosse un forza magnetica che le attirasse. Facemmo l’amore su quel balcone che mostrava Roma in tutta la sua magnifica bellezza, osservati solo da poche stelle. Ma tra quelle poche doveva esserci anche la sua, comparsa il 20 Agosto del 2006. Erano passati dodici anni dalla morte di Davide Bettinelli e molte cose erano cambiate.
15 Dicembre 2015
«La prossima volta mangiamo al Mc» esclamò Jasmine ridendo nel salire gli scalini due a due. Corsi per raggiungerla con l’affanno «un piatto di gamberi più di trenta euro» non riuscivo ancora a credere e scoppiai a ridere «era tentato dallo sputare in faccia al proprietario». Lei rise di nuovo e aprì la porta della casa, facendomi segno di stare zitto. La luce era accesa e si chinò per togliersi i tacchi, camminando a piedi scalzi per non svegliare Jaime. La seguii un po’ a disagio, infilando le mani nelle tasche del giubbotto. Notai che le pareti della casa erano sporche, le mattonelle del pavimento rovinate e la stanza troppo piccola. Anche i pochi mobili erano antichi e, in particolare, la mia attenzione fu catturata dal televisore e dal divano mezzo scassato. Ad un angolo c’era una donna anziana che stava cucendo. Alzò gli occhi scuri dall’ago e il filo e fissò me e Jasmine ancora in piedi. «*Mamma sei ancora sveglia?» Jasmine parlò in hindi, a me incomprensibile, e si avvicinò per spegnere la televisione accesa. L’anziana donna non rispose e mi sentii tremendamente a disagio quando posò gli occhi su di me. Guardai altrove, prendendo in considerazione l’idea di scappare. Anche Jasmine si accorse di quello sguardo ma non disse nulla. «*Jaime sta dormendo» la madre finalmente si degnò a rivolgerle una parola e si alzò in piedi. «*Grazie ancora mamma» si avvicinò per baciarla e poi si voltò verso di me, parlando in inglese, «Jon lei è mia madre, non parla inglese. *Mamma ti presento Jon, è un mio amico» Mi avvicinai titubante alla vecchietta e feci per stringerle la mano ma non accadde nulla e rimase a fissarmi in modo ostile, come se fossi un terrorista. Abbassai lo sguardo, mordendomi il labbro, mentre Jasmine la salutava e la accompagnava alla porta. Era venuta a trovarla da poche settimane e dormiva a casa di una vicina anziana al piano di sopra, me lo annunciò quando chiuse la porta. «Ti faccio un caffè?» chiese, dopo essere andata in camera di Jaime per dargli un bacio. Annuii e mi sedetti in cucina, trovandola un buco come il resto della casa. Era piccola persino per una persona, figuriamoci per due o tre come lo erano stati un tempo. «Scusa per mia madre» disse imbarazzata, mettendo la caffettiera. «Non preoccuparti» forzai un sorriso, tamburellando con un dito sulla superficie del tavolo. «Lei pensa che tu abbia cattive intenzioni» Jasmine scoppiò a ridere, voltandosi a guardarmi, «conosco quell’espressione, lo fa ogni volta che ha paura per me. Poi tu sei americano e quindi è mille volte peggio. E’ ancora convinta che Ajar sia l’uomo perfetto» fece una smorfia, mettendo a posto il caffè. «Non le hai mai raccontato cosa faceva?» aggrottai la fronte, seriamente confuso. Jasmine mi lanciò una rapida occhiata divertita «tu vivi in America, non conosci le tradizioni della mia nazione e non le potrai mai comprendere. Per una madre Ajar è e rimarrà per sempre l’uomo perfetto. Lei è cresciuta con un uomo simile ed è così che deve essere» scrollò le spalle con semplicità. «Ma come può pensare una cosa del genere?» continuai stupefatto «ti picchiava, picchiava Jaime!» «Ed era giusto così» Jasmine raccolse i capelli in una coda e sorrise alla vista della mia espressione «Jon è un altro mondo quello orientale. Mia madre è vissuta per tutta la sua vita in India e non sa cosa è il mondo. Lei conosce ciò che ha davanti, per questo la civiltà occidentale la spaventa e la ripudia» tirò fuori il caffè e lo versò in due tazze. Ne assaggiai un sorso e la guardai mentre si sedeva di fronte a me. Aveva le guance leggermente rosse, gli occhi truccati di poco e una luce negli occhi che la rendeva ancora più bella. Ripensai al primo giorno in cui l’avevo vista, con lo sguardo abbassato e sottomesso. Era un’altra donna quella di fronte a me, una donna con una luce di libertà nello sguardo da fare invidia persino a me. «Poi ha paura per Jaime» sussurrò Jasmine all’improvviso, lo sguardo fisso sulla finestra alla nostra sinistra, «ha paura che si possa fare strane idee per la tua presenza. Ho provato a spiegarle che tu ci stai solo aiutando, però non posso nasconderle di temere la stessa cosa» alzò gli occhi e li piantò sui miei come a suggerirmi qualcosa «da una parte penso abbia ragione, dall’altra però no. Non so spiegartelo ma è come se fossi divisa in due» abbassò lo sguardo sul tavolo, in imbarazzo, «c’è una cosa che volevo chiederti da tempo Jon». Mi irrigidii quando alzò gli occhi per incrociare i miei. «Ci hai aiutato ed ora Ajar non tormenta più i miei giorni ma qualche volta compare solo nei sogni. Ci sei stato accanto nei primi tempi ma è passato un anno da quando lui non c’è più e tu sei ancora qui» si morse il labbro «ed io te ne parlo solo ora, nonostante avrei dovuto farlo mesi fa. Lo faccio solo ora perché da una parte non volevo pensarci ma non posso fare a meno di chiedermi il perché tu sia ancora qua». Il cuore prese a battermi più forte del normale non riuscii a sostenere più il suo sguardo penetrante. «E’ tardi» guardai il cielo scuro dalla finestra. «Stai scappando?» la voce di Jasmine tremò leggermente «da cosa?» «E’ tardi Jasmine» ripetei e mi alzai in piedi. «Se varchi quella porta non la troverai più aperta» la sua voce risuonò glaciale per tutta la stanza «ti sarò per sempre grata di ciò che hai fatto ma non ho intenzione di stare male di nuovo. Ho pianto anni per Ajar, aspettando che arrivasse un cavallo bianco che venisse a salvarmi. E non voglio soffrire oltre, quindi se te ne stai andando questa porta non la troverai più aperta, Jon Snow» il suo sguardo era duro, freddo, glaciale. La mia mano sfiorò la maniglia e guardai la vernice stesa male. «Io non sono un principe azzurro» sussurrai, stringendo così forte la maniglia da farmi male. Vidi Jasmine abbassare lo sguardo e rimanemmo in silenzio. Inaspettatamente tirò su con il naso e si coprì con una mano il volto, non voltando la testa verso di me. Feci un passo avanti ma la sua voce roca mi interruppe. «Vattene» singhiozzò, continuando a tenere lo sguardo fisso sulla finestra, «ti prego vattene». La maniglia scese più in basso e la porta si aprì lentamente. La guardai di nuovo ma non riuscii ad abbassare la mano del tutto. «Un anno» Jasmine tirò di nuovo su con il naso, stringendosi tra le braccia, «mi sono illusa per un anno che tu fossi venuto seriamente a salvarmi, ed ora mi fai questo?» «Tu non me lo hai mai chiesto» incontrai i suoi occhi ricoperti da lacrime. «Dio, Jon!» esclamò quasi con rabbia «un anno che mi sei stato accanto, che mi aiutavi a pagare l’affitto anche se non te l’ho mai chiesto, che andavi a prendere Jaime a scuola di tua spontanea volontà. Un anno passato insieme ad un bambino che non ti ha mai rivolto la parola, nonostante i tuoi tentativi. Io non te l’ho mai chiesto, Jaime non te l’ha mai chiesto». «Allora non chiedermelo ora». «Cosa vuoi, santo cielo?» Jasmine si alzò in piedi «continuare a fare da autista a Jaime? Vuoi farmi la spesa? Vuoi non sentirti solo, Jon Snow?» la sua domanda risuonò quasi sarcastica «io non ho bisogno di un autista, di un babysitter o di un cagnolino che vuole un po’ di compagnia. Non ho bisogno della tua maledetta compassione, ho bisogno di altro» prese fiato, asciugandosi il volto, «ora finalmente ho saputo che tu non sei la persona adatta, allora vattene per favore» la sua voce tremò leggermente. «Io voglio bene a Jaime» la mia mano sudata lasciò andare la maniglia della porta. «Jaime non è tuo figlio» la sua voce risuonò dura «e non è un passatempo da usare per sentirsi meno solo. Jaime è un bambino che va rispettato per le sue qualità e va amato. Tu non sei la persona giusta, per un anno ho creduto di si». «Jasmine ti prego…» tentai «è difficile». «Non è difficile, basta scegliere. Se non varchi quella porta ci siamo io e Jaime, se la varchi non ne ho idea» scrollò le spalle «mi accorgo solo ora che non so nulla di te. Non so neanche che scuola frequentavi, che posti hai visitato, perché hai deciso di diventare poliziotto. Non conosco nessuno dei tuoi parenti, non so quante donne hai avuto» fece una smorfia «non so nulla di te, me ne accorgo solo ora. Ho avuto il prosciutto negli occhi per un anno, credendo di aver finalmente incontrato quella persona che mi avrebbe stravolto la vita. Ajar mi feriva ogni giorno ma lo faceva direttamente, tu lo hai fatto per oltre dodici mesi e solo ora sto soffrendo, ora che ho finalmente capito che non è arrivato nessun principe azzurro a salvarmi perché i principi azzurri non scappano via, continuano a combattere» si asciugò le lacrime, prendendo fiato. «Jasmine non posso essere ciò che tu mi chiedi» chiusi gli occhi per un istante. «Allora grazie di tutto e addio». La mia schiena sfiorava la porta e le dita trovarono di nuovo la superficie fredda della maniglia. Sollevai lo sguardo e la vidi stretta tra le braccia che fissava da un’altra parte. Il vestito nero aderente al corpo snello con una cinta che le cingeva i fianchi stretti. La guardai e la trovai più bella del solito, persino con il trucco colato. Avanzai a rapidi passi verso di lei e le alzai il mento, immergendomi nell’oceano del suo sguardo. La baciai, cingendole la vita con una mano e con l’altra le accarezzai il viso. Le sue labbra si aprirono per accogliere le mie e posò entrambe le mani sulle mie spalla, stringendomi a sé. Continuai a baciarla, cambiando spesso posizione del viso con le sue lacrime che mi bagnavano le guance. Le nostre mani si incontrarono, unendosi, e poi tornarono a sfiorare il corpo dell’altro. Mi staccai e la guardai negli occhi, con ancora le labbra che sfioravano le sue. Teneva gli occhi chiusi ed era bellissima. Una scarica elettrica mi attraverso la schiena ed abbassai entrambe le mani sul suo vestito. Le mie dita trovarono la sua cinta e la tolsero lentamente, prima di infilarsi al di sotto del suo vestito e prendere ad accarezzare il corpo snello e sodo. Sollevai il vestito e, quando passò oltre il suo viso e cadde a terra, mi allontanai di poco per guardarla. Indossava un completino intimo nero, con autoreggenti color carne. Le mie dita percorsero la linea perfetta della sua schiena, scivolarono tra le sue gambe magre e salirono sempre più sopra regalandole un gemito. Arrivarono a sfiorare la pancia piatta e poi il seno pieno. La baciai a quell’altezza, avvertendo ogni parte del mio corpo andare a fuoco. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi e li aprì solo quando mi staccai dalle sue labbra. «Sei bellissima» sussurrai al suo orecchio, leccandolo. Mi abbracciò, appoggiando il capo sulla mia spalla. La sentii singhiozzare e capii che era tutto sbagliato. Il suo corpo seminudo davanti a me, le mie mani fisse sui suoi fianchi perfetti, le sue dita sotto la mia camicia. «Io non posso essere il tuo principe azzurro» sussurrai di nuovo, lasciando che una mia lacrima si posasse sulla sua guancia, «mi dispiace». Jasmine continuò a piangere ma le sue mani scesero ugualmente all’altezza dei miei pantaloni. Mi baciò, stringendomi forte sulle braccia, e lasciai che mi spogliasse. Le sue labbra carnose percorsero il petto, con le mani che vagavano sulla mia schiena toccando le cicatrici. E le nostre labbra ripresero la danza di prima anche se più disperata, violenta. Ma questa volta anche i nostri corpi si mossero. La spinsi contro il tavolo e la feci stendere, guardandola da sopra. Lei si alzò con il busto, lasciando che le togliessi il reggiseno e gli slip. Riuscii a toglierle solo metà della calza poiché le sue mani si impadronirono dei miei boxer. «Dio!» Jasmine mi guardò affascinata e le sue mani continuarono ad accarezzarmi da collo in giù, «sei stupendo» il modo naturale in cui lo disse mi fece sorridere. Non l’aveva detto ubriaca, con le lacrime agli occhi. Non lo aveva detto pensando ad un altro, trattandomi come un oggetto con la luna che si eclissava. Le lacrime iniziarono a scendere inaspettatamente e la strinsi a me, accarezzandole il seno con le sue labbra sulle mie. I nostri corpi si unirono, fondendosi in una cosa sola. La collana a mezzo cuore sbatté contro i suoi seni ma a guardarmi erano i suoi occhi, a stringermi erano le sue braccia, ad amarmi era il corpo. «Voglio che tu sia il mio principe azzurro» sussurrò al mio orecchio, ansimando con me, «non mi importa di nient’altro, ti prego». Mi sembrò una bambina, nonostante gli anni. Una bambina che desiderava un po’ di amore, che mi stava chiedendo quel favore per una notte. Una bambina con gli occhi verdi velati di lacrime che non mi meritava. Ma smise di essere bambina quando raggiunse l’orgasmo, tirando la testa all’indietro e aggrappandosi alle mie spalle. Era bella come una dea e la baciai, chiedendomi se stessi sognando. «Sarò il tuo principe» le mie labbra si staccarono dalle sue così come il mio corpo ma non smisi di tenerla stretta tra le braccia, ansimando al suo orecchio, «ma non so se mi vorrai». «Ti voglio» Jasmine si aggrappò di nuovo a me, intrecciando le gambe alla mia vita, «ti voglio» ripeté al mio orecchio un in sussurro sensuale. La baciai per un’ultima volta prima di staccarmi di poco. Lei mi guardò preoccupata che me ne andassi ma seguì attentamente le mie mani arrivate a sfilare la collana a mezzo cuore. Gliela misi tra le dita e lei alzò il viso, confusa. «Cosa è?» la sua voce tramò leggermente e notai una lacrima appesa tra le sue ciglia, non capendo se vi era rimasta da prima oppure fosse appena nata. Evitai il problema e la raccolsi con l’indice, accarezzandole lentamente la guancia. «E’ la metà del mio cuore».La sveglia suonò alle sei di mattina. Allungai un braccio e la spensi, rigirandomi sul letto distrutto. I capelli neri di Jasmine ricadevano disordinati sul cuscino e sorrisi alla vista della sua espressione angelica. Si mosse leggermente quando accarezzai la sua guancia e la baciai piano sulla fronte poi si rigirò sull’altro lato nel momento in cui mi alzai in piedi, evitando movimenti bruschi per la paura di svegliarla. Indossai del pantaloni ma rimasi a petto nudo, rovistando dentro le valigie fino a trovare ciò che stavo cercando. Alzando lo sguardo vidi che Jaime era ancora addormentato, rannicchiato nel suo letto singolo. Mi infilai dentro la doccia, lavandomi velocemente il corpo prima di aprire il barattolo della tintura bionda, preparatomi da Charlie. I primi anni che l’avevo fatto veniva sempre fuori una schifezza assurda, poi Charlie mi aveva aiutato (con anni di esperienze di Carnevale in Brasile alle spalle) e l’effetto non era tanto male, soprattutto perché lui mi mischiava tutto l’occorrente prima ed io ero impossibilitato dal combinare qualsiasi pasticcio a meno che non la stendessi bene o non rispettassi i tempi. Non era il biondo dei capelli di Gabriel, si avvicinava più al biondo scuro. Ringraziavo il cielo di non esser nato con i capelli neri ma castani e negli ultimi anni, soprattutto d’estate, al sole sembravano quasi biondi. Uscii dalla doccia e fui costretto ad aspettare una quarantina di minuti per lasciare che la tintura si asciugasse. Nel frattempo mi rasai e misi un po’ apposto le valigie, stando attento a non svegliare nessuno dei due. Mi presi anche una boccata d’aria ma non riuscii a rilassarmi neanche con un libro. Quando finalmente il tempo scadde mi infilai di nuovo dentro la doccia e guardai allo specchio il risultato. Mi sembravano più biondi dell’ultima volta e compresi cosa aveva voluto intendere Charlie quando mi aveva accompagnato all’aeroporto con un sorriso divertito “mi ha aiutato anche Gabriel a scegliere il colore”. Erano molto più biondi e fui tentato dal chiamare entrambi e mandarli a quel paese. Con una smorfia iniziai a vestirmi, infilandomi dei jeans e una camicia a quadri con sotto una canottiera bianca. Controllai che non si vedessero le cicatrici, ritrovandomi a pensare con una smorfia che sarei morto dal caldo. Aprii la confezione delle lenti a contatto nere e le misi, senza problemi. Infilai anche gli occhiali, essendo le lenti a contatto solo coloranti e non per problemi da vista. Mi fece uno strano effetto osservare l’immagine riflessa allo specchio. Il biondo faceva un po’ a cazzotti con la carnagione abbronzata e gli occhi neri. Creava un effetto particolare ma non orrendo. Anche i vestiti non erano il mio genere ma era sempre meglio di niente. Allacciai la collanina a mezzo cuore sul collo, nascondendola dentro la canottiera, prima di uscire dal bagno. «Dove stai andando?» Sobbalzai sentendo una voce provenire dalla soglia della porta. Voltandomi trovai Jaime in pigiama che mi fissava confuso, gli occhi verdi fissi suoi miei capelli e poi suoi miei occhi. Mi sentii sporco sotto quello sguardo e rimasi per troppi secondi con le labbra aperte ma mute. «Perché ti sei tinto i capelli?» domandò, questa volta con tono più triste. Anche i suoi occhi erano tristi e mi sentii un verme. Jaime continuò a squadrarmi con un intensità da far venire i brividi. Poi abbassò lo sguardo e tirò su con il naso. «Vi ho sentiti a te e mamma» continuò a guardare a terra e strinse i pugni «non siamo qui per fare una vacanza, non è vero?» Mi avvicinai a lui e gli alzai il viso con la mano, guardandolo direttamente negli occhi lucidi. Scorsi una lacrima sulle sue ciglia e la raccolsi. «Ti sei vestito così per loro, non è vero?» chiese di nuovo, lasciando che alcune lacrime raggiungessero le labbra «sei qui per loro, non per noi» nel dire quella parole si allontanò da me, evitando qualsiasi contatto come se fossi un mostro. «No, Jaime» scossi la testa alzandogli il viso con un po’ di forza, in modo che potesse guardarmi negli occhi, «sono qui per una persona e voglio che venga anche tu a conoscerla». «Perché mamma no?» Jaime continuò a piangere. «Mamma non ha voluto, me lo ha detto ieri» cercai di sorridere «ora le scriviamo un biglietto, ok?» Mi guardò a metà tra il riluttante e il curioso. La sua espressione era incerta ma, alla fine, annuì e lasciò che gli prendessi la mano. Presi un foglio di carta e scrissi a Jasmine che Jaime era venuto insieme a me e saremmo tornati tardi. Le consigliai di fare altre foto per Roma, a modelli certamente migliori di me e Jaime. «Ok, possiamo andare» presi la mano di Jaime che era rimasto ad un angolo, dopo essersi vestito. Chiusi la porta dell’albergo ed infilai le chiavi dentro le tasche dei jeans, camminando al fianco del bambino.
La tomba di Davide era ricoperta di fiori, come tutti gli anni. Posai un ginocchio a terra e levai un po’ di polvere dalla superficie piana, sopra la quale c’erano tanti mazzi di fiori, candele e anche peluche. Ne presi uno con un sorriso e lessi la scritta “Da Giorgia, Marco e la piccola Giulia. Un bacione Dav”. Accanto all’orso ce ne era un altro, firmato dalla figlia di Rossella, e una piccola tartarughina da parte di qualcuno sconosciuto. Lessi il nome di Robb e Lucia in un mazzo di fiori e quello disordinato di Simone sopra un cd, con il titolo “Hurt”. Un rosario era posato poco avanti, con una foto di Davide da piccolo insieme ai fratelli. La toccai piano e, quando spostai lo sguardo più a sinistra, vidi la carta arrotolata del testamento della stella, lasciata lì da tanti anni ed ormai quasi del tutto rovinata. «Ora accendiamo una candela» mi voltai verso Jaime con un sorriso «lo vuoi fare insieme a me?» Lui mi guardò incerto ma infine si avvicinò e lasciò che gli prendessi la mano. Insieme accendemmo una candela lasciata lì e rimanemmo a guardare la fiamma che danzava. «Non gli portiamo dei fiori?» sussurrò Jaime imbarazzato, parlando piano come se potesse sentirci. Scossi la testa «non era un tipo da fiori» guardai il nome inciso sulla pietra e poi riportai la mia attenzione su Jaime che fissava come ipnotizzato i regali ai suoi piedi. «Ti ricordi la prima volta che ci siamo visti?» gli domandai con la voce roca «io ti ho detto che al mondo esistevano persone speciali, poche ma c’erano. Davide Bettinelli era una di queste, siamo qui per lui oggi» gli presi la mano e lo feci inginocchiare al mio fianco. «E’ merito suo se ho incontrato te» gli accarezzai il viso con un sorriso «fiori, stelle, candele non saranno mai abbastanza per ringraziarlo di averti qui al mio fianco ora. Neanche una vita intera basterebbe a ringraziarlo per il regalo più bello che mi ha fatto». «Io sono il tuo regalo più bello?» Jaime alzò timidamente lo sguardo su di me. Annuii e lo abbracciai, stringendolo forte tra le braccia. Affondò il capo sulla mia spalla e rimanemmo così per un momento interminabile. C’era solo il dolce rumore delle foglie a farci compagnia e il vento che sfiorava le nostre vesti. Poi sentii delle voci, più lontane. Presi Jaime per la mano e gli feci segno di seguirmi accanto ad un albero molto distante. Scorsi il cimitero ma c’erano solo due signore anziane che posavano dei fiori su una tomba, faticando ad inginocchiarsi. «Aspetta» sussurrai a Jaime che aveva appena aperto bocca per chiedere qualcosa. Controllai l’ora. Mancavano due minuti alle nove di mattina e il sole era già alto. Osservai le due vecchiette che parlavano a bassa voce, con la mano di Jaime stretta attorno alla vita. Poi li vidi. «…io voglio andare a casa di Francy oggi!» stava esclamando un bambino, correndo avanti. «Davide quante volte te lo devo ripetere che non ti ci mando più?» una voce di donna risuonò stanca. «Papà, dille che non succede nulla!» continuò la voce infantile e scorsi un bambino dell’età di Jaime avanzare con passo più svelto delle altre tre figure «perché Giulia ce la fanno andare?» «Perché ha un padre sconsiderato» una voce maschile rise poi tornò seria «comunque la faccenda si chiude qui, Dav. Massimo massimo ti mandiamo a casa di Giulia ma solo se c’è Giorgia che ti fa da babysitter». «Ma Giorgia non è simpatica come Marco e Francy» il bambino sbuffò «solo Amy si diverte insieme a lei» scoccò un’occhiataccia alla bambina che camminava con la mano stretta attorno a quella del padre. «Allora ti mandiamo a casa di Robb e Lucia» esclamò il padre spazientito «almeno loro non ti faranno buttare dal secondo piano, anche se con tremila materassi a terra». Il bambino borbottò qualcosa ma si zittì quando arrivarono di fronte ad una tomba. Da quella distanza riuscii a vederli meglio. Davide fissava la tomba in silenzio, con le braccia incrociate sul petto, mentre Amy al suo fianco stava trafficando per sistemare dei fiori più grandi di lei e il padre si chinò ad aiutarla, baciandola rapidamente sulla fronte. Indossava jeans chiari e una camicia nera a maniche corte, con occhiali da sole in cima alla testa e scarpe da ginnastica. La donna si inginocchiò e sistemò altri fiori ai piedi della tomba, esattamente al centro. Indossava un vestito bianco stretto in vita da una cinta color blu marino, con i lunghi capelli castani raccolti in una coda alta. Per un breve attimo mi parve di scorgere la collanina a mezzo cuore che era sporta nell’atto di chinarsi. Le mie dita strinsero più forte le dita di Jaime e il cuore, per qualche attimo, smise di battere. «Adry come mai è già accesa una candela?» Adriano si voltò a guardare Isabel e poi la candela. Alzò le spalle «Dario mi ha detto che passava con la figlia prima di andare a lavoro, l’avrà accesa lui» si chinò per accendere un’altra candela, prendendo l’accendino dalla tasca dei jeans. Amy si ritrasse e Davide la prese in giro, prima che Isabel si voltasse a rimproverarlo. Il bambino abbassò il viso e disse qualcosa alla madre «io gli ho portato l’autografo di Totti e una letterina» diede alla madre due fogli, rosso in volto, «però non so e gli piacerà la letterina…» «Si che gli piace» Isabel rise e gli arruffò i capelli, posando tutte e due le cose sulla tomba di Davide. «Alla mamma l’autografo di Totti piace un po’ meno invece» Adriano sorrise, alzandosi in piedi. Isabel gli diede una botta sul petto e scorsi per un attimo il suo volto, anche se troppo distante. Jaime mi stava fissando, ne ero consapevole. Mi abbassai per arrivare alla sua altezza, tenendomi appoggiato con solo i talloni. Lasciai che si avvicinasse a me e lo strinsi tra le braccia da dietro, posando il capo sulla sua spalla. «Andiamo via?» sussurrò, con gli occhi bassi e leggermente rossi. Gli accarezzai i capelli e lo baciai sulla guancia, stringendolo più forte. «Tra poco» feci in modo che potesse guardarmi negli occhi, alzandogli il mento con l’indice e il pollice, «ti porterò in un posto bellissimo, te lo prometto». Vidi Jaime rivolgermi un ampio sorriso e posai di nuovo il mento sulla sua spalla, prendendo entrambe le sue mani tra le mie. «Amy tu non gli dai nulla?» Adriano guardò la bambina e si inginocchiò nel mio stesso modo, abbracciandola, «non glielo fai vedere alla mamma cosa hai fatto?» La bambina si mosse agitata ma, infine, annuì e prese dalla tasca del vestitino azzurro alcuni fogli. «Sono brutti però» guardò Isabel dal basso, tormentandosi le unghie. Isabel si inginocchiò di fronte a lei e sorrise ad Adriano, prima di accarezzare i capelli della figlia. «Posso vedere?» domandò e prese il foglio dalle mani di Amy, guardandolo attentamente con la testa leggermente inclinata a destra, «è un angelo?» alzò lo sguardo su Amy che annuì decisa. «Ma è venuto male. Zio Davide è più bello» mosse i piedi sul terreno, imbarazzata. «E questo invece?» Isabel prese l’altro foglio dalle mani della figlia e lo guardò con un sorriso, «hai disegnato anche Jon?» Amy annuì di nuovo e guardò il foglio rossa in faccia «ma è venuto più bello perché mi ha aiutato papà a farlo, io gli ho solo fatto le ali..» si giustificò. «La nostra piccola artista» Adriano sorrise e Davide si sporse per spiare i disegni ma Amy prese in fretta e furia i fogli dalle mani della madre e se li strinse al petto, scuotendo la testa. «Li voglio vedere anche io!» esclamò il bambino con il broncio. «No, diresti che sono brutti» lei scosse la testa a destra e sinistra. «Ma se l’hai detto anche tu poco fa?» fece lui e cercò di afferrarla ma lei corse avanti. Iniziò un rincorrersi continuo tra i due bambini e i genitori rimasero ad osservare ridendo. Amy era meno veloce ma schizzava da una parte all’altra tra le tombe in modo inaspettato. Arrivò a qualche metro di distanza da me e si voltò indietro per accertarsi che il fratello fosse lontano ma, nel farlo, perse l’equilibrio. Lasciai stare di colpo Jaime e corsi avanti, afferrandola per il minuscolo polso prima che crollasse a terra. I suoi disegni caddero e il suo ginocchio sfiorò il terreno caldo. Riuscii a sollevarla con un gesto rapido e i miei occhi incontrarono i suoi. Aveva un viso paffuto, capelli mossi e castani, labbra piccole e un nasino a punta. I grandi occhi grigi erano fissi sui miei e le sue guance si dipinsero in un istante di un rosso intenso. «Stai attenta» quelle parole, dette in italiano, avevano uno strano suono sulla mia bocca. Lasciai stare il suo polso e recuperai i due fogli a terra, non facendo a meno di guardarli. Quello di Davide aveva linee più incerte dell’altro, poiché era stato fatto unicamente da lei. Però i colori erano stati stesi bene e il volto espressivo dava un senso di tranquillità. «Sono brutti» non mi accorsi di averli fissati troppo a lungo e mi sorpresi quando Amy parlò, più rossa di un peperone. Le sorrisi e mi sembrò di fare la cosa più naturale del mondo. «Non è vero, sono bellissimi» alzai una mano ma la ritrassi all’istante. Per cosa l’avevo alzata? Per spostarle una fastidiosa ciocca dagli occhi? Oppure per accarezzarle la guancia liscia e avvertire il calore della sua pelle? «Amy…» Davide giunse da dietro e guardò la sorellina, portando poi gli occhi scuri su me e Jaime dietro. Corrugò la fronte e si affiancò ad Amy, lanciando un rapido sguardo divertito ai disegni. «Questo l’ha fatto quasi tutto papà!» esclamò con soddisfazione, come se l’avesse sorpresa nell’atto di rubare. Amy se li strinse al petto, guardandolo male, e mi venne da sorridere. «Ehi che succede?» una voce fece voltare entrambi i bambini dietro. Adriano si inginocchiò al fianco di Amy. Le controllò il ginocchio e le mani per accertarsi che non vi fossero tracce di terreno. «Dav non mi lascia in pace» si lamentò la bambina, puntando l’indice contro il fratello rimasto in disparte. Gli occhi scuri di Adriano si posarono sul figlio e poi andarono su Jaime. L’osservò per qualche secondo di troppo, prima che Amy lo tirasse per la manica in modo che facesse qualcosa. «Dav, non disturbare più tua sorella» Adriano alzò gli occhi al cielo e si mise in piedi, pulendosi i jeans con le mani. Amy lasciò cadere di nuovo i fogli per la foga di muovere la testa sopra e sotto. Con un sorriso mi chinai a raccogliere il mio disegno e glielo ridiedi «ti è caduto di nuovo, non vuole stare al suo posto». La bambina lo accettò più rossa di prima ma Adriano si chinò al suo fianco, posando una mano sulla sua spalla. «Perché non glielo dai al signore?» la guardò direttamente negli occhi e poi fissò il disegno «noi ne possiamo fare uno ancora più bello. Potrebbe essere il primo disegno che regali a qualcuno con il tuo autografo». «Nessuno si comprerebbe i suoi disegni» borbottò Davide, guadagnandosi un’occhiataccia da parte del padre. «Non so» la bambina mi guardò di nuovo, mordendosi le labbra, «ti piace?» «E’ bellissimo» le sorrisi, avvertendo lo sguardo di Jaime trafiggermi la schiena. Lei mi rivolse un sorriso radioso e lasciò che il padre le offrisse una penna. Firmò il disegno con solo il suo nome, a destra e in fondo aggiungendoci un cuoricino. Tentennò prima di darmelo e lo fece solo quando Adriano le sfiorò il braccio. «Amy?» alzai gli occhi su di lei, fingendomi sorpreso nel leggere il nome, «è un bellissimo nome». Adriano sorrise e accarezzò la bambina che era diventata ancora più rossa e non capii se a fargli quell’effetto ero io o, più in generale, l’esser costretta a parlare con un estraneo. «L’ha scelto la mia mamma» si voltò a cercare Isabel ma Adriano attirò di nuovo la sua attenzione e le sussurrò qualcosa all’orecchio. Lei raggiunse Davide che aveva preso a scrivere qualcosa su un albero e Adriano si alzò in piedi, infilando le mani dentro le tasche dei jeans. «Le piace tanto disegnare» disse, con lo sguardo rivolto ai due bambini, poi si voltò a fissarmi con un sorriso «è bello rivederti». «Quest’anno non solo» infilai il disegno dentro la tasca dei jeans, dopo averlo fissato a lungo. Gli occhi di Adriano si spostarono su Jaime e vi rimasero a lungo. Il bambino lo guardò diffidente, rimanendo alle mie spalle, ma Adriano si avvicinò ugualmente e lo guardò direttamente negli occhi. «Jaime, giusto?» domandò con un pessimo accento inglese «ho sentito tanto parlare di te, anche se una volta all’anno. Ogni anno, stessa ora, stesso giorno» sorrise alzando lo sguardo su di me. Jaime si strinse tra le braccia come a proteggersi. I suoi occhi verdi però scrutarono Adriano con attenzione. Era anche quello uno sguardo intelligente, indagatore e diverso dall’espressione confusa che avevo scorto nei visi degli altri due bambini. Jaime fissava Adriano come un adulto e Adriano faceva lo stesso, anche se con un sorriso fresco sulle labbra. «Hai una persona magnifica al tuo fianco, Jaime» sussurrò dopo qualche secondo di silenzio «non scordartelo mai, per nessuna ragione al mondo». Jaime lo guardò, poi alzò gli occhi su di me non sapendo cosa fare. Sorrisi e gli arruffai i capelli, avvicinandomi ai due. Adriano si alzò in piedi, abbracciandomi. Mi diede una pacca sulla schiena e, quando si staccò, mi scrutò a lungo «se ti serve qualcosa in questi giorni sai a chi chiedere. A proposito, ogni anno mi diventi sempre più biondo ma mai più brutto» fece una smorfia «le rughe arrivano per tutti ma tu devi proprio spaventarle a morte!» Scoppiai a ridere e presi un foglio dalla tasca dei jeans. Glielo porsi con il cuore che batteva senza sosta. Adriano lo fissò con la fronte aggrottata e poi alzò gli occhi su di me. «Sai, ho appena controllato nella mia agenda ma l’11 Settembre devo lavorare tutto il giorno e non potrò venire». «Neanche come testimone di nozze?» inclinai la testa, alzando un sopracciglio. «Mah, forse si…» scrollò le spalle con un sorriso «certo che avete scelto proprio una bella data!» guardò di nuovo l’invito di nozze. «Il fratello di Jasmine è morto il giorno dell’attentato alle Torri Gemelle e dobbiamo procedere in fretta, diciamo che tra qualche mese non le entrerà più il vestito…» lasciai la frase in sospeso, sorridendo nel vedere l’espressione stupita dipinta sul suo volto. «Un piccolo Snow?» Adriano distorse le labbra, visibilmente emozionato. «Un batuffolo di neve, diciamo di si» era come se il sorriso non volesse abbandonare il mio viso. Adriano mi guardò a lungo, senza dire nulla. Mi bastarono i suoi occhi scuri, profondi e sinceri. Mi bastò l’abbraccio che mi diede, appoggiando il capo sulla mia spalla «sono contento per te» sussurrò al mio orecchio, non staccandosi, «e penso che questo che hai fatto oggi…portare qui Jaime, sia stato il regalo più bello per Davide». Lo strinsi più forte «lo penso anch’io» sentii la voce strozzarsi e ci staccammo solo sentendo le voci dei due bambini molto più distanti. Adriano fece per aggiungere qualcos’altro ma fummo interrotti dal suo arrivo. «Adry ma perché diavolo ci state mettendo così tanto?» Fu un istante ma sembrò durare una vita intera. Mi fece dimenticare tutto il resto, persino ciò che avevo detto o pensato un secondo prima. Un breve istante in cui i suoi occhi trovarono i miei, il suo sguardo incrociò il mio e ogni cosa mi provocò dolore. Poi sentii qualcosa di soffice sfiorarmi il polso e, voltandomi a destra, vidi che Jaime aveva afferrato la mia mano con gli occhi fissi sul mio volto. Lo guardai senza capire ma mi bastò quel contatto a portare dentro di me un’insolita scarica di energia. «Scusa, Amy ha fatto un po’ di danni» Adriano mi diede le spalle, parlando con tono tranquillo, come se non stesse succedendo nulla. Isabel afferrò la mano di Amy e rimproverò il figlio per averla inseguita. Raccolse anche il disegno di Davide e si inginocchiò al fianco della bambina «e l’altro?» domandò, sistemandole qualche ciocca dei capelli. «L’ho dato a lui» Amy mi indicò con il dito che poco prima si era infilata in bocca. Isabel alzò di nuovo lo sguardo su di me, con la fronte corrugata. I suoi occhi mi trafissero, portando una serie di scariche elettriche. Non li ricordavo così beli, non la ricordavo così bella…così donna. Le labbra carnose senza un filo di trucco, il viso ovale e quegli occhi magnetici, diversi da quelli di Amy per il peso degli anni. Ma c’era la mano di Jaime stretta attorno alla mia. Una mano che mi strinse più forte, un gesto che valeva più di mille parole. Era il mio unico scudo, la mia unica arma di difesa. E sentii Jaime, non vidi Isabel. Così, come quegli occhi grigi si erano posati suoi miei, si allontanarono. Adriano rise «voleva regalare il suo primo disegno, l’ha persino firmato. Ne faremo uno ancora più bello». «E glielo regali alla mamma?» Isabel distolse lo sguardo da Adriano per rivolgersi di nuovo alla figlia. «Te lo faccio di papà?» Amy si illuminò, felice, mentre Davide sbuffava al suo fianco borbottando qualcosa. «No, lo voglio di Jon» Isabel le accarezzò i capelli con un sorriso «hai pregato anche per lui oggi?» Questa volta fui io a stringere più forte la mano di Jaime. Adriano distolse lo sguardo a disagio mentre la bambina annuiva insieme a Davide e Isabel li baciava entrambi sulla fronte, risollevandosi. «Andiamo?» domandò ad Adriano. Lui annuì e seguì Davide che si era già avviato. Amy prese la mano di Isabel ma si voltò a guardarmi. All’improvviso si staccò dalla madre e corse verso di me, rossa in viso. Isabel la seguì confusa e Adriano costrinse Davide a bloccarsi per guardare lei che si fermava di fronte a me, con un sorriso timido sulle labbra. «Posso darti un bacio?» domandò la bambina con voce un po’ pasticciata. La guardai confuso ma mi chinai, lasciando che le sue piccole labbra sfiorassero la mia guancia. I suoi occhi grigi incontrarono nuovamente i miei. Dolci, puri, emozionati, bellissimi. «Quando diventerai famosa ricordati del tuo primo autografo» sussurrai con un sorriso, ammirando la bellezza di quel viso così innocente. Amy annuì convinta, il volto rosso per la corsa e l’imbarazzo. Sollevai una mano e le accarezzai la guancia bollente, avvicinando le mie labbra alla sua pelle liscia. La baciai piano, come se fosse fatta di cristallo e, solo quando mi allontanai, mi resi conto di aver lasciato una lacrima sulla sua guancia destra. La bambina mi sorrise di nuovo e poi corse via, riafferrando la mano della madre che era rimasta a guardare confusa. «Da grande mi sposerò con lui!» esclamò a voce troppo alta, emozionata e sognante. Davide scoppiò a ridere insieme ad Adriano, mentre Isabel le accarezzava la testa divertita. La bambina si aggrappò al suo braccio, voltandosi per un secondo verso di me. Quando le loro schiene non furono più visibili, il mio cuore prese a calmarsi. «Grazie» mi voltai verso Jaime. Non trovai gli occhi grigi di Amy e il sorriso dolce sulle sue labbra.Trovai gli occhi che avevo imparato ad amare più di me stesso, occhi che mi avevano seguito per tutto il tempo quasi studiandomi. Occhi al quale non era sfuggito nulla, che forse avevano anche sofferto in quei pochi minuti. «Per cosa?» Jaime non abbassò lo sguardo. Gli accarezzai il viso, diversamente da come avevo fatto prima con Amy. C’era il mio presente, passato e futuro in quegli occhi. Mi ricordavano i miei occhi alla sua stessa età ma erano anche diversi. Vidi una luce che nei miei non c’era mai stata. Una luce che esisteva ora anche per me ed era solo merito suo. «Per esistere» sussurrai, lasciando che una lacrime scendesse sulla mia guancia. Questa volta non toccò la pelle di Amy ma l’indice di Jaime giunto a sfiorare il mio viso. Sollevai una mano e la posai sopra la sua che si muoveva sul mio volto, immobilizzandola. Jaime mi sorrise e mi circondò tra le braccia, come aveva fatto due anni prima. «Ti voglio bene» E divenni di nuovo ciò che non ero mai stato in tutta la mia vita, così come Jaime nella sua. Un figlio.
1 Novembre 2016
I fiocchi di neve si posarono sui petali dei fiori bianchi, ormai appassiti. Sfiorai con delicatezza un petalo e la neve si sciolse sul mio dito, diventando acqua. Jaime si posizionò accanto a me, gli occhi fissi sui fiori che stavo toccando. Lo guardai e sorrisi, strappando un piccolo fiore per fare in modo che lo prendesse tra le dita. «Il bianco è il colore della purezza» gli accarezzai la guancia «tu sei ancora innocente Jaime, fa in modo di rimanerlo per sempre». Lui non rispose. Non rispondeva mai ogni volta che aprivo bocca, che muovevo una mano per prendere la sua o accennavo un semplice gesto. Si distaccava e mi fissava con un espressione impassibile, distante, glaciale facendomi capire che io non ero nessuno per lui. E ne soffrivo, ogni giorno di più. Riportai lo sguardo sulla tomba di Tom Satchel, anch’essa spoglia e fredda. Non era come la tomba di Davide, piena di fiori e risplendente di una luce simile a quella del sole. La tomba di Tom suggeriva buio, freddo, solitudine. «E’ la prima volta che lo vengo a trovare» presi a parlare, gli occhi fissi sulla lapide come Jaime alla mia destra, «non sto provando nulla». Jaime non aprì bocca, come sempre. Eppure mi sembrò che sui suoi occhi ardesse una luce nuova, vitale. Ed era strano in quel cimitero ricoperto di neve, il cui unico messaggio era quello di morte. «Una sola cosa mi ha insegnato nella vita» sorrisi «mi ha insegnato cosa non dovevo essere. Mi ha fatto capire cosa significava la parola padre più di tutti gli altri esseri umani. Anche tu lo sai, Jaime» incontrai i suoi occhi verdi, sempre distanti, «quando sarai grande penserai a tutte quelle volte che hai pianto per tuo padre e diventerai ogni giorno più forte. Non migliore perché questo dipende da te, ma ti fortificherai perché hai sperimentato il dolore. E quando avrai un figlio lo guarderai con una luce negli occhi che tu stesso non conosci perché non l’hai mai vista negli occhi di tuo padre. E allora lo amerai come lui non ha mai amato te. Capirai che lui è stato il tuo insegnante di vita, perché ti ha fatto diventare ciò che non è mai stato». Jaime distolse lo sguardo e lo riportò di nuovo sulla tomba e su quei fiori, portati quasi certamente da Catherine giorni o mesi prima. «Quando ti ho incontrato ho visto me in te» sussurrai «ma tu sei più intelligente di me, diventerai senza dubbio una persona migliore. Tu hai avuto la forza di chiedere aiuto. L’hai chiesto a me e non ho ancora capito il perché ma l’importante è che tu hai avuto la forza di credere ancora che al mondo ci fosse qualcuno capace di aiutarti. L’hai fatto tardi e quella cicatrice sul polso ti ricorderà per sempre di questo tuo errore, così come le mie. Però io ho aspettato anni interi e non ho mai chiesto aiuto a nessuno. E’per colpa di questo mio egoismo che mio padre ha fatto del male a tante persone, in primis a se stesso. La verità è che non avevo il coraggio di chiedere aiuto ad altre persone…avrebbero provato compassione e mi avrebbero privato di una vendetta personale che comunque non ho mai realizzato. Ed è qui che giace la mia più grande debolezza, è per questa ragione che ho commesso tanti errori nella mia vita» abbassai lo sguardo «non sono ciò che tu vorresti che io fossi e non lo sarò mai. So solo una cosa, Jaime: so che quando ti ho guardato negli occhi ho sentito il bisogno di aiutarti, di starti al fianco, di donarti quell’amore che io non ho mai avuto. Dio mi ha mandato da cielo un padre, si chiamava Mario, ma io non sono mai diventato suo figlio perché non ho colto quel messaggio silenzioso. Non ero ancora pronto per esserlo. Ero pronto per la figura di padre, madre, amico, fratello ma mai e non per quella di figlio. Probabilmente non lo diventerò mai ma voglio che qualcuno non faccia il mio stesso errore». Voltai le spalle alla tomba di Tom e mi sedetti a terra, al fianco di Jaime. Avvicinai lentamente una mano verso la sua, convinto che l’avrebbe scostata. Invece l’accetto e la strinse forte, gli occhi ancora abbassati. Stava piangendo e, sempre cautamente, sfiorai con l’indice la sua guancia liscia raccogliendo una lacrima giunta sul collo. «Non dimenticherai mai tuo padre e ciò che ti ha fatto» sussurrai «piangerai la notte per lui, ti toccherai la cicatrici ripercorrendo il dolore che hai provato ma, soprattutto, penserai a ciò che non ti ha mai detto. Lo farai ogni giorno, piangerai silenziosamente ogni giorno e stringerai forte il cuscino per avere un po’ di appoggio. Ma ricordati una cosa, Jaime. Ricordati che se avrai bisogno di una spalla su cui piangere, di una mano da stringere e di un po’ di amore io sono qui» i suoi occhi verdi erano un abisso di dolore e solitudine «io sarò sempre qui, aspettando quel momento e, se non arriverà, io continuerò a sorridere e ad attenerlo fino alla fine dei miei giorni». Jaime abbassò lo sguardo, senza dire nulla. Non lasciai la mano dalla sua e lui fece lo stesso, continuando a non guardarmi. «Ti voglio bene» la sua voce giunse dopo alcuni minuti di silenzio. Fu il suono più bello del mondo, alle mie orecchie sconosciuto. Ma, ancora più bello, fu il calore del suo corpo che mi abbracciava facendomi sentire protetto, amato. Il suono della sua voce non era minimamente comparabile al rumore dei nostri cuori vicini, uniti come un unico corpo. «Ti voglio bene anche io» piansi sulla sua spalla, stringendolo forte. E rimanemmo abbracciati di fronte a quella tomba che ci osservava muta, illuminata da un debole raggio solare.
«Jon, giuro che se mi butti in mare me ne ritorno di corsa a Fiumicino!» Scoppiai a ridere e strinsi più forte il corpo di Jasmine, facendo attenzione nel salire le scale. Lei mi cingeva il collo con le braccia, aggrappandosi così forte che la pelle divenne rossa. La posai a terra, ansimando per la fatica di averla trascinata in braccio fino a lì. Non tanto perché era pesante ma più per il fatto che si contorceva come un’anguilla. Jasmine voltò la testa a destra e sinistra, come se potesse vedere oltre la benda che le avevo messo all’altezza degli occhi. Si aggrappò alla barriera tirà su con il naso. «Siamo in spiaggia» sussurrò per quella che doveva essere la millesima volta, protendendo le braccia al vuoto, «sento l’odore del sale, il suono delle onde e poi il vento. Stiamo in alto» esclamò compiaciuta di sé stessa. Lanciai una rapida occhiata a Jaime, facendogli capire che ne avremmo avuto ancora per molto. Erano quasi le otto di sera e il sole stava tramontando. Avevamo impiegato più di due ore ad arrivare a Fregene da Roma e tutto per colpa del ritardo dell’autobus e del traffico intenso. La gente tornava dal mare per passare una tranquilla serata a casa o in giro per le città e c’era un caos pazzesco per tutta la costa. «Tu hai salito gli scalini» continuò Jasmine, tenendosi stretta alla barriera, «ma non capisco come puoi aver salito degli scalini se siamo in una spiaggia» aggrottò la fronte, razionale come sempre. Mi avvicinai a lei, stingendola tra le braccia, per sussurrarle all’orecchio «ti ricordi quando ieri sera mi hai detto che da piccola salivi in cima al Taj Mahal per sentirti libera?» vedendola annuire continuai «non c’è bisogno di andare in India per sentirsi una principessa. Le principesse restano tali in ogni luogo del mondo». Aprì la bocca per dire qualcosa ma misi un dito all’altezza delle labbra, come a suggerirle di stare zitta. Abbassai una mano solo quando fui certo che non avrebbe parlato e l’abbracciai da dietro, appoggiando il capo sulla sua spalla. «Cosa devo fare?» sussurrò dopo alcuni secondi di silenzio, avvertendo la presenza di Jaime alla sua destra. «Ascolta con il cuore» sfiorai con le labbra l’incavo del collo e la sentii irrigidirsi tra le mie braccia «cosa senti?» «Tremo» lei sorrise. «E poi?» continuai, baciandola piano all’altezza dell’orecchio. «Poi mi batte forte il cuore» continuò, rossa in faccia, «batte così forte che mi fa male». «E dove pensi di trovarti?» chiesi, soffiando al suo orecchio. «In un castello» ci pensò un po’ «con un bellissimo principe che mi bacia sul collo. Mi sento una principessa tra le sue braccia, la più ricca e bella principessa del mondo». «E hai bisogno di vedere il castello oppure non ti serve?» domandai, stringendola più forte. «No, mi basta il principe» Jasmine rise e si lasciò accarezzare il viso dalle mie mani. Con la benda che le copriva gli occhi suggeriva una sensazione di insicurezza, come se dovesse essere protetta. E le mie braccia colsero velocemente quel messaggio, posandosi all’altezza della sua vita e cingendola. Le sue labbra erano aperte e accolsero le mie. Fu un bacio dolce, innocuo, dato in una posizione scomoda. «Il tuo principe oggi non c’è stato però» mi staccai accarezzandole il viso con il palmo della mano, come se fosse fatta di cristallo. «Neanche il suo abile scudiero» Jasmine sorrise ad un punto dove pensava si trovasse Jaime ma sbagliò di qualche metro. «Ma il principe non abbandonerà più la sua principessa» le mie dita si intrecciarono tra le sue e sollevai la sua mano all’altezza dei nostri visi, lasciando che si sfiorassero, «il principe ama la principessa e non la farà mai soffrire. Le principesse non devono soffrire, non devono neanche esser toccate da fiori con le spine» con una mano le accarezzai il collo, dove vi erano alcuni segni rossi di tanti anni prima, «e non vanno mai lasciate sole perché gli orchi cattivi le possono portare via e fare loro del male. Le principesse devono essere amate, non devono piangere, non devono essere rinchiuse ma devono esser libere di volare via quando ne avranno voglia. Le principesse alla fine incontrano sempre un principe. Tu sei la mia principessa, ed io il tuo principe. E non sono il principe perfetto. Il principe perfetto arriva con un cavallo bianco e porta via la principessa dal male. Certe volte, però, accade che sia proprio il principe appena arrivato a portare il male alla principessa. Può capitare che il principe sia malato e allora la principessa si trova costretta a curarlo perché lo ama. E forse la principessa soffre perché desidera il cavallo bianco, desidera essere salvata e amata nella sua interezza. Ma il principe non ce la fa, ha bisogno dell’aiuto della principessa per imparare ad amare». Una sua lacrima mi bagnò le dita. «Tu sei quella principessa. Hai salvato il tuo principe, aiutandolo ad andare avanti, gli hai insegnato ad amare, a credere ancora in qualcosa. Il tuo principe da malato è tornato sul suo cavallo bianco ed ora ti porta con sé. E continuerà a cavalcare con te per tutta la vita, sapendo che nessun ostacolo si frapporrà tra voi e se succederà il suo amore sarà così forte che continuerà a cavalcare. Il principe ha incontrato la sua principessa e non la lascerà mai più perché è lei che lo ha curato ed è per lei che ha voluto rinascere». Sfilai la benda dagli occhi di Jasmine e allungai una mano in modo da incontrare la mano di Jaime. Il bambino mi sorrise e la sua mano strinse sia quella mia che di Jasmine. «E’ bellissimo» la sua voce era roca e si voltò di poco per baciarmi sulle labbra, continuando a tenere la mano tra quella mia e di Jaime. Il sole stava scomparendo oltre la linea del mare, illuminando la spiaggia con colori caldi. Il rosso si rifletteva tra i capelli di Jasmine e Jaime, forse sui miei ancora biondi doveva avere uno strano effetto. I suoi occhi verdi si immersero nei miei, grigi. Non avevo più bisogno di finzione, di travestimenti, di nulla. Non mi ero mai sentito così vero come in quel momento. Mi sentivo libero da qualsiasi armatura in cima a quel castello. Mi proteggeva dal mondo esterno, era lui a fare da barriera. E mi sembrò quasi di vedere sulla spiaggia due bambini che si rincorrevano tra di loro: uno più grande e svelto dell’altro ma meno attento. I capelli neri, le guance rosse per lo sforzo, gli occhi color nocciola ridenti. Mi sembrò di vedere gli stessi bambini più grandi che si schizzavano tra di loro, di sentire le loro risate farsi più lontane e poi il calore del sole che veniva meno. Rividi Isabel con le mani appoggiate alla barriera, gli occhi coperti da una benda nera, i muscoli tesi. Odorai il suo profumo intenso, ritoccai la morbidezza della sua pelle, percorsi la linea del suo corpo. Le mie dita si rimuovevano tra le sue cicatrici, scioglievano i nodi dei suoi capelli e la stringevano forte. Le mie lacrime si posavano sulla sua pelle mentre il sole tornava a sorgere e il suo cuore riprendeva a battere più forte di prima. “Perdonami amore”. Sciolsi la collana a mezzo cuore e la guardai per un’ultima volta, seguendo il contorno della lettera per la quale avevo pianto anni interi, stringendo tra i denti il cuscino e sperando di morire. Ma questa volta non desiderai piangere, non sperai che il buio arrivasse e la morte mi cogliesse. Sorrisi ed sollevai gli occhi verso l’orizzonte, il mio futuro. Mi abbassai per arrivare allo stesso livello di Jaime e lo guardai. I suoi occhi verdi non abbandonarono per un istante i miei, anche quando gli aprii le dita e vi posai sopra la collana. «Al mio tre» gli accarezzai la fronte con dita tremanti. Lui annuì intuendo ciò che avevo intenzione di fare e lasciò che le mie dita si intrecciassero alle sue, con ancora la collana nel mezzo che ci divideva. «Uno» Alzai gli occhi sul mare e sulla sottile linea del sole. Anni fa lo stesso sole stava sorgendo dal mare ma, in quel momento, se ne stava andando via come se avesse concluso il suo compito più importante. «Due» Jasmine ci guardava stretta tra le braccia, lo sguardo fisso sulle nostre mani congiunte. «Tre» I miei occhi trovarono di nuovo quelli di Jaime senza più abbandonarli. Poi la collana volò in alto e ricadde velocemente, scomparendo tra le onde. Un pezzo di me se ne andò via, per sempre. E il principe, finalmente, tornò a cavalcare il suo cavallo bianco senza mai voltarsi indietro.
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